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In attesa del nuovo romanzo in uscita per Rizzoli, Guglielmo Pispisa racconta la "sua" Messina

Guglielmo Pispisa dalla New Italian Epic al “giallo”

Lui è Guglielmo Pispisa. Ma è anche (un quarto di) Kai Zen. Ed è anche (la metà di) Marco Felder. Messinese, avvocato civilista e scrittore, in Tutta quella brava gente (2019, Nero Rizzoli), il “giallo” scritto a quattro mani con Jadel Andreetto appunto sotto lo pseudonimo Marco Felder, fa comparire in quel di Bolzano un poliziotto messinese. Tanino Barcellona, questo il nome del personaggio, tornerà presto (sempre per Rizzoli) a fare indagini insieme con il suo “opposto”, il più che settentrionale Karl Rottensteiner – anche se titolo e data di pubblicazione sono ancora top secret.

Non bastasse, Pispisa ha appena concluso il suo nuovo romanzo “individuale”, una sorta di spin off di un suo libro precedente, Voi non siete qui (2015, Il Saggiatore) che è stato, neanche a dirlo, un piccolo caso letterario, con protagonista un avvocato messinese invischiato prima in un’irrequieta relazione extraconiugale e poi in un piano losco e intricatissimo fra politicanti corrotti e compiacenti frammassoni.

Insomma, Guglielmo Pispisa è un messinese al quale val la pena di chiedere qualcosa su Messina e sulla scrittura, antinomia o binomio che possa essere. Prima di approdare al “giallo” vero e proprio, d’altronde, Pispisa ha scritto tanto e bene. Inserito nella corrente del New Italian Epic, la sua presenza nella narrativa italiana contemporanea si connette a uno degli esperimenti più interessanti degli ultimi anni, quello della scrittura collettiva, grazie alla partecipazione all’ensemble narrativo Kai Zen, fondato nel 2003 insieme a Jadel Andreetto, Bruno Fiorini e Aldo Soliani e dal quale nascono La strategia dell’ariete (Mondadori, 2007) e Delta Blues (Verdenero, 2010). Tuttavia è anche un “solista”. Oltre a Voi non siete qui, tra i suoi romanzi individuali si ricordano Città perfetta che viene pubblicato da Einaudi nel 2005 grazie alla segnalazione entusiasta del gruppo di “lettori residenti” denominato “i Quindici”, La terza metà (2008, Marsilio) e Il Cristo ricaricabile (2012, Meridiano Zero).

Un “giallo” che gioca sul confronto Nord-Sud

E poi è arrivato il “giallo”, Tutta quella brava gente. “Nella mia carriera di scrittore – racconta Pispisa – avevo frequentato molti generi e i miei libri di solito contengono un elemento di mistero, ma non mi ero mai dedicato al giallo puro, nonostante sia il genere in assoluto più diffuso e apprezzato dal grande pubblico. Avevo voglia di colmare la lacuna e mettermi alla prova. L’idea è nata come un gioco dalle chiacchiere con Jadel Andreetto, mio amico fraterno col quale abbiamo fondato l’ensemble narrativo Kai Zen ormai tanti anni fa, e chiacchiera dopo chiacchiera ha preso una fisionomia che ci piaceva e sulla quale abbiamo voluto scommettere. L’idea di mettere due mondi a confronto, Nord-Sud, esemplificati dalla strana coppia di poliziotti in scena non è nuova ma funziona ancora benissimo”.

Scrivere questo romanzo è stato per lui “un’esperienza molto divertente. Scrivere è fatica e anche un prezioso mezzo espressivo, ma non si può e non si deve mai prescindere dal divertimento, in ogni cosa che si fa. Questo giallo mi ha riportato a una dimensione più ludica della scrittura, e la cosa mi è piaciuta molto. Con Jadel non rinunciamo a un tratto impegnato, di denuncia, anche in quella sede, ma il ritmo e il dinamismo della detection insieme al piacere di scrivere un personaggio brillante e spiritoso come Tanino fanno la differenza”.

Nel futuro c’è ancora un “giallo”, ancora per Rizzoli e ancora con Tanino Barcellona coprotagonista. Un libro dal quale Guglielmo Pispisa si aspetta “quello che ci si aspetta da ogni libro. Che ti dica qualcosa che non sai su di te e sul mondo. Questo vale per i libri che si leggono e anche per quelli che si scrivono. Ogni volta che scrivo di qualcosa, imparo. Sono anzi solito dire che non sono mai sicuro di sapere qualcosa se prima non ne ho scritto”.

Una vocazione piena, questa della scrittura, che non era però per niente ipotizzata, quando, da giovanissimo, Pispisa ci si è imbarcato. “Attorno ai vent’anni mi sono reso conto di non avere un centro, qualcosa che mi caratterizzasse davvero, qualcosa che mi interessasse profondamente. Non che fossi uno sbandato, tutt’altro, ma non c’era nulla che mi facesse stare davvero bene. Studente universitario senza gioia. Nulla che soddisfacesse il mio ego. E come molti di quelli con un ego ingombrante e una componente narcisistica pronunciata, ho avuto la presunzione di credere che se mi fossi messo a scrivere qualcosa le persone avrebbero perso tempo a leggerla. Il mio migliore amico si era trasferito per andare a studiare in un’altra città. Ho cominciato a scrivere a lui, lunghe lettere, ancora non esisteva la mail, ma siccome nella mia vita non succedeva niente di rilevante ho cominciato a inventare cose e a scrivergliele. Mi veniva benino. Ho continuato”.

“Un’allegra ma riservata scemenza”

Nelle interviste e nelle presentazioni Pispisa appare piuttosto riservato. Parla con parole esatte e misurate del processo creativo. “Riservato – conferma – è un aggettivo che mi si addice. Ma anche scemo, direi. La scemenza è un altro tratto fondamentale di me. Un’allegra ma riservata scemenza che si svela a chi mi conosce bene. Il processo creativo scaturisce proprio da quella scemenza, una sorta di piccola irriverenza nei confronti di qualunque dato del reale che non accetto come immutabile. Prendo un fatto, una concatenazione di fatti o anche solo una sequenza di parole, un giro di frase, e comincio a rigirarmelo in testa, osservandolo da tutti i punti di vista che mi vengono in mente, anche quelli più insensati, dall’alto, dal basso, dalla soggettiva di questo o di quell’altro, una formica o dio, dal buco della serratura di un bagno pubblico, e vado avanti. E se poi succede questo, e se poi succede quello? Poi naturalmente c’è il mestiere, l’occhio, ma quello è venuto dopo, col tempo e l’esperienza. Il primo passo è questo voler giocare con il lego del reale per vedere se lo si può montare in modo diverso da come di solito lo vediamo”.

“A Messina tipi comuni da periferia dell’impero”

Con Messina, la città in cui vive, ha fatto famiglia e lavora, il rapporto è e resta complicato. Per dirne una, il suo ultimo e il suo prossimo libro sono ambientati a Bolzano, anche se il protagonista in effetti è un messinese che però non vive a Messina da molti anni. “Non sono sicuro che esistano caratteri tipici messinesi che non possano trovarsi anche altrove, in realtà ne dubito”, dice Pispisa. “Sono tipi comuni alle periferie dell’impero, immagino. Affetti da una certa pigrizia mentale cronica, dall’abitudine a lamentarsi della congiuntura senza rendersi conto che di quella congiuntura si è parte integrante. Scarsa percezione di sé, tendenza a considerarsi al centro di un’inquadratura nella quale in realtà si è solo una figura sullo sfondo. Il che è comune più o meno a chiunque, in realtà, ma se sei davvero alla periferia dell’impero l’assurdità del tuo egocentrismo risalta di più”.

Quindi con Messina c’è “un raccordo problematico e conflittuale, come quello di molti in questa città. Un luogo con un grande, sprecatissimo potenziale. Un posto incantevole e mediocre, pieno di gente interessante e competente che scovi se guardi con attenzione e curiosità, perché spesso non è dove dovrebbe essere, dove meriterebbe di essere. Da avvocato civilista, vivo l’aspetto socio-commerciale della città, con tutte le sue difficoltà che, da professionista, condivido e subisco. Un avvocato civilista dipende strettamente dal tessuto economico del luogo nel quale opera, è come il canarino nella miniera, sta bene se l’ambiente è buono ed è il primo a soffrire se l’aria si fa irrespirabile. Si notano in giro segni d’asfissia”.

D’altronde, in questa città “c’è tanta qualità poco riconosciuta”. Giusto per fare un esempio, “la scena teatrale mi sembra ben frequentata e vivace, da Il castello di Sancio Panza dei miei amici Monia Alfieri e Roberto Bonaventura, al Teatro dei Naviganti, dal Clan Off a Sasà Neri e il suo Teatro degli Esoscheletri. Abbiamo avuto e abbiamo musicisti fenomenali, a partire dal grandissimo, indimenticato Pippo Mafali, che mi sembra giusto ricordare quando si parla di grandi artisti che hanno segnato nel bene questa città, fino a Massimo Pino, per citare un altro grande bassista mio ex compagno di scuola che non frequento dal liceo ma seguo da lontano. Io perlopiù mi riferisco a realtà legate a persone della mia generazione ma sono sicuro che ci sia molto di buono anche tra i più giovani (che però conosco meno). Accetto suggerimenti!”.

“Lavorare da remoto? Si, però… “

Un doppio osservatorio, quello di Pispisa, sull’emergenza sanitaria, la chiusura, le conseguenze in corso … Da avvocato annota che “a causa del Coronavirus le udienze sono state rinviate per un paio di mesi e ora quelle che si tengono perlopiù si svolgono in modo virtuale, depositando con il processo telematico delle note per l’udienza. Nel 90% dei casi è una soluzione ottimale, si perde meno tempo che andando in udienza di persona e si fanno esattamente le stesse cose con gli stessi risultati. In qualche caso però lo svolgimento in presenza del processo non si può e non si deve sostituire. Soprattutto per evitare che gli operatori del diritto, giudici e avvocati, perdano contatto col lato umano del lavoro, dimenticandosi per chi fanno quello che fanno”.

Invece, come scrittore, “stare a casa, avere più tempo per scrivere, per leggere” avrebbe dovuto essere un vantaggio. Ma così non è stato. “Personalmente, ma credo sia una cosa comune a molti, nelle prime settimane ho sperimentato una notevole difficoltà di concentrazione che mi ha molto inibito. Scrivere, in fondo, prima di farlo seduto alla scrivania devi farlo vivendo, osservando, ascoltando. Non che risulti impossibile farlo anche in quarantena, ma ci vuole lucidità e all’inizio della clausura io non ne avevo abbastanza. Quando finalmente l’ho recuperata eravamo quasi alla fine. Ad ogni modo con i Kai Zen, proprio per rimediare alla frammentarietà del nostro impegno e della nostra capacità di concentrazione, abbiamo ideato un’ipotesi di romanzo psichico, che chiunque, volendo, può praticare a partire da 15 riflessioni che abbiamo messo sul nostro blog, https://kaizenology.wordpress.com/. Siamo partiti da lì e stiamo tessendo un racconto rizomatico ancora in fieri (5 puntate previste)”.

Scrivere come processo di scoperta

La domanda delle domande è sul “movente”, che in casa di giallista ci sta tutta. Perché scrive Pispisa? “È una domanda la cui risposta cambia col tempo. Vent’anni fa ti avrei risposto in modo diverso. Una volta scrivevo per liberarmi di tutte le parole che avevo in testa, tutte le opinioni, tutte le storie, le visioni del mondo che sentivo urgenza di condividere, quasi che a tenerle troppo tempo dentro mi potessero fare esplodere. Oggi non è più così, l’urgenza espressiva si è attenuata, ho già detto le cose importanti che mi sembrava di dover dire. Sono più selettivo, meno bulimico, anche perché ho meno tempo e sono più lento e distratto da altro. Scrivo di meno, in modo più focalizzato su un singolo obiettivo di lavoro. Unici punti fermi rimangono divertirsi e dire cose non scontate evitando una scrittura sciatta. Cause no, non scrivo con in testa una causa da portare avanti. Non ho mai creduto sia un buon modo di procedere, non per me almeno, perché rende la scrittura troppo didascalica, troppo ‘a tesi’. Parti con l’idea di dover dimostrare una cosa precisa e questo influenza il processo creativo, che invece è di per sé, e deve rimanere, un processo di scoperta, qualcosa in itinere e non definito fino a quando non è concluso. Tempo fa, proprio tornando da una presentazione, l’ultima fatta a Milano prima del lockdown, sentivo in cuffia una canzone dei Massive Attack. C’era un verso che diceva: Show without showing what you know without knowing. Mi è sembrata una definizione perfetta di quel che faccio o cerco di fare quando scrivo. Mostrare senza far vedere che sto mostrando quello che so senza ancora sapere di saperlo. Non sono sicuro di essere stato chiaro”.

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