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Banfi, «Fake news e click, credibilità giornalista a rischio»

Pubblicato il 23 Agosto, 2020

Lui è un giornalista di lungo corso, con alle spalle esperienze in grandi quotidiani e magazine, come cronista politico, caporedattore e direttore del settimanale “Il Sabato”, redattore per “Epoca”, “La Notte” e “Il Manifesto”, per poi approdare in TV, come giornalista e quindi come autore. Alessandro Banfi, torinese, attualmente lavora a SKY Italia come capo progetto della trasmissione Ogni Mattina, in onda da fine giugno 2020 sul canale TV8, ma nella sua carriera, tra le altre esperienze, ha diretto TgCom24, lavorato per 10 anni al Tg5 di Enrico Mentana, prima come caporedattore Cronaca e poi come vicedirettore, è stato autore della trasmissione di approfondimento di seconda serata su Canale 5 “Matrix”. Con lui abbiamo parlato di come è cambiato il giornalismo negli anni, in particolare dopo l’avvento del web e, quindi, dei social.

Lei è un giornalista che ha visto la professione trasformarsi, dagli anni ’80 all’era dei social. Come ha vissuto il cambiamento? 

Una rivoluzione copernicana, più che un cambiamento. Quando ho cominciato, alla fine degli anni Settanta, si lavorava di taccuino e di ritagli di giornale. Di memoria e di cultura generale. Mossi i primi passi in una radio di Torino e facevo i collegamenti dai telefoni grigi con la cornetta pesante posizionati nelle cabine telefoniche a gettone per strada o nelle sale stampa. Registravo le interviste e le mandavo con una ventosa attaccata all’apparecchio…  Era proprio un altro mondo. La professione (dal battere veloce a macchina) fino ad esercitare la memoria su nomi e dati aveva un aspetto fortemente artigianale. Ebbi la fortuna, da giovanissimo, di incontrare Giampaolo Pansa che mi spiegò come leggere i quotidiani, ritagliarli, creare delle cartelline da ripassare al vaglio ogni mese, per buttare via le cose diventate vecchie. La prima parte della mia carriera, nei giornali, era fatta di emeroteche, ritagli e di queste cartelline che mi portavo dietro, divise per argomenti e personaggi. L’Italia stessa (per non dire quando ho lavorato agli Esteri) ho imparato a conoscerla viaggiando, come si diceva allora, con retorica, consumando le scarpe. Le città, le province, i luoghi tipici, gli ottomila Comuni… Oggi mi sorprende sempre notare nelle nuove generazioni di colleghi la mancanza di agganci, anche mnemonici, dei vari luoghi del nostro Paese. Google oggi è potentissima, ti mette su uno smartphone che puoi tenere in tasca tutto lo scibile umano. Ti sembra di sapere tutto ed è inutile avere qualsiasi cartellina con dentro un vecchio ritaglio. Un pezzo si può scrivere al telefono, un servizio televisivo girarlo con l’Iphone… E’ talmente forte il cambiamento che non so bene neanche dire vantaggi e svantaggi in modo razionale. Ci sono dentro. Faccio spesso un paragone preso dalla storia della cultura. Quando arrivò l’invenzione della stampa, cambiò tutto. San Tommaso D’Aquino diceva che non puoi dire di conoscere un libro se non lo hai copiato almeno due volte. Ecco, si può solo immaginare quella cultura degli amanuensi, la cultura detta della glossa, e lo choc quantitativo e qualitativo del libro stampato. Eppure sapere, studiare, conoscersi, appassionarsi fa ancora la differenza. Nel nostro mestiere ci vogliono tre cose che non possono mancare mai, con nessuna tecnologia a disposizione. Curiosità, sensibilità e studio. Curiosità significa non avere troppi pregiudizi e amare almeno un po’ la realtà, l’umanità per raccontarle. Sensibilità vuol dire anche percepire gli umori, i movimenti profondi delle società e dei protagonisti della storia. Studio vuol dire informarsi, dannarsi l’anima per capire, non accontentarsi, porsi domande, leggere libri, parlare con chi ci capisce.

Il citizen journalism è una delle evoluzioni dovute al web. Secondo lei, è più un limite o una risorsa?

Può essere una risorsa, se poi alla fine c’è un modo di vagliare le testimonianze dirette, di verificarle, di confrontare i punti di vista. Il web è selvaggio, come il vecchio west. Dovrà arrivare il giorno in cui si fisseranno regole perché ogni punto di vista non diventi verità assoluta.

Internet è uno strumento prezioso per il giornalista, se usato adeguatamente, ma che ha “facilitato”, forse eccessivamente, l’accesso alla professione. Va bene così?

La nostra professione è in crisi, non solo per la Rete, ma certo siamo in presenza di una grande rivoluzione. Resto convinto che ci sarà sempre bisogno di chi sa raccontare in modo professionale, credibile e attendibile la migliore versione disponibile dei fatti. Di chi sa distinguere fra notizia e pettegolezzo. Di chi sa agire tenendo come bussola l’interesse generale dei cittadini. E’ una questione che al di là delle nostre beghe professionali riguarda l’assetto democratico e persino i principi costituzionali. Il cittadino moderno forma la sua opinione attraverso informazioni verificate e corrette. Quando il deputato conservatore inglese Edmund Burke inventò l’espressione “quarto potere” intendeva indicare questo ruolo dei mass media. Quando Luigi Einaudi, capo provvisorio dello Stato italiano dopo la Resistenza, coniò lo slogan “conoscere per deliberare” spiegava proprio questo principio. Sono questioni talmente contemporanee che il New York Times durante il superbowl, la trasmissione americana più vista in tv, ha proposto uno spot per difendere e spiegare il nostro lavoro. Lo trovate su Internet ed è curioso che uno dei tre slogan finali pronunciati dal grande attore Tom Hanks sia questo: “Knowing helps us to decide”. E’ lo stesso concetto del vecchio Einaudi. Oggi ridiventato cruciale, decisivo, una partita fra la vita e la morte. Non è in ballo solo il giornalismo ma in che società vogliamo vivere.    

Nell’era dei social, la rapidità dell’informazione ha creato quel mostro chiamato “fake news”. Come arginarlo?

Andrà arginato. Nessuno sa bene come, per ora. Ma su questo punto sono ottimista. Un qualche contrappeso a certe follie dovrà presto arrivare. Sennò andrà in crisi tutto, ma proprio tutto. Internet compreso.

I quotidiani cartacei sono ormai stati soppiantati da quelli online, dove i click contano quanto l’acquisto di una copia di un giornale in edicola. In quest’ottica, fin dove si può spingere un giornalista? Si può sacrificare (anche solo in parte) la deontologia professionale sull’altare della raccolta di “click”?

Ho diretto TGCOM24 che non è solo un canale all news, ma è anche uno dei siti d’informazione più seguiti d’Italia. Ho vissuto dunque dall’interno certi meccanismi, e al massimo livello. La vicenda dei click è molto preoccupante. Chi organizza i siti (anche d’informazione) deve tenere presente un algoritmo che automaticamente “premia” ciò che più piace al pubblico. Le chiamano zone “fredde” e zone “calde” del sito. Può accadere che un caporedattore o un direttore siano spinti da questo feed back automatico dei gusti del pubblico a mettere notizie “facili” sempre più in primo piano rispetto ad altre. Il video del gattino che canta, la gaffe di Razzi o la foto del lato B di Belen al mare potrebbero diventare “più importanti” della crisi in Libano dopo la doppia esplosione. Il criterio giornalistico sulla notizia (che mette in primo piano l’interesse generale) rischia di cedere il passo alle inclinazioni peggiori del pubblico cliccante. Accade, può accadere ma anche qui quando si raggiungerà il limite ultimo verrà distrutta ogni credibilità e si dovrà trovare un modo per regolamentare e ritrovare un equilibrio su ciò che i siti di informazione devono offrire al pubblico.

Quale il futuro del giornalismo?

Difficile rispondere. E’ molto chiaro ciò che è stato, e ciò che ancora dovrebbe essere. Ma davvero non so dire come il giornalismo evolverà nel nuovo mondo 2.0. Ce ne sarà sempre bisogno, questo sì. La gente ama sentir raccontare la realtà, vuole capire e vuole decidere. Ci sarà sempre chi si prenderà il compito di servire gli altri a questo scopo. Come, oggi non so dire. Ma ci sarà.

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