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Vincenzo Nemolato: talento e tecnica, ora protagonista in Paradise di Davide Del Degan, attraverso il teatro – intervista esclusiva

Pubblicato il 10 Marzo, 2022

In occasione dell’uscita del film Paradise di Davide Del Degan, abbiamo raggiunto ai nostri microfoni Vincenzo Nemolato, attore di origini napoletane che sempre più si sta mettendo in luce tra cinema e teatro. Partendo dalla sua partecipazione alla famosa serie Gomorra e ai film di Igort e Pietro Marcello, accennando alla tecnica del mestiere abbiamo ripercorso la sua carriera in questa intervista esclusiva.

I percorsi di una vita ci portano a strade impreviste, tortuose, piene di cadute, risalite e spesso poco convenzionali. Lo è per ognuno di noi. Guardando al panorama attoriale italiano e fotografando i talenti di oggi, dopo aver scambiato una chiacchierata con Chiara Gusmano, abbiamo raggiunto ai nostri microfoni un talento in ascesa, uno che cura il suo percorso in modo preciso e meticoloso come Vincenzo Nemolato.
Napoletano, originario del quartiere Scampia, ha percorso lo stivale in lungo e in largo sia sul grande schermo che attraverso il palcoscenico. Ora, grazie a “Paradise” e a Davide Del Degan che lo ha scelto, è arrivato finalmente il suo primo ruolo da protagonista cinematografico. Ma quanti sacrifici ha dovuto fare? Quanto è stato duro, come canta Ligabue, “il peso della valigia”?

Ti sei sempre diviso tra cinema e teatro, come hai costruito l’equilibrio attoriale con i tuoi colleghi?

Probabilmente è una questione attitudinale, di carattere, magari c’entra anche il talento. Sono appassionato di filosofia del mestiere e ho letto molto riguardo agli scritti di Jouvet. Secondo me è anche uno sforzo di generosità, di fare un passo indietro nei confronti di un personaggio, di rimanere a disposizione del racconto. Alla lunga funziona insieme ad una tecnica che devi imparare a padroneggiare e a nascondere, costruendo una connessione emotiva che metti a disposizione del personaggio, al quale sei disposto a dare tutto semplicemente per raccontare la sua storia, perché hai empatizzato con lui. Se quest’atteggiamento diventa sempre più personale dell’attore si nota e vieni notato, anche se magari non sei famoso come gli altri, anzi paradossalmente la gente nota di più il personaggio piuttosto che l’attore.

Lo abbiamo notato anche in “Gomorra”

Tutti noi che abbiamo partecipato alla serie siamo amici prima che colleghi, a Marco D’Amore dico spesso “sei il maestro più giovane che ho avuto’’, con Salvatore Esposito ho fatto anche un altro film. Tra tutti noi c’è una grande stima reciproca.

Uno dei tanti meriti di “Gomorra” è stato quello di portare a livello internazionale la “scuola del teatro napoletano”, esiste veramente secondo te? E cosa la differenzia dalle altre?

Le peculiarità di questa scuola partenopea possono essere anche i suoi difetti, poiché Napoli per gli attori, come spesso dice Toni Servillo: “è un acquario in cui girare, guardarsi attorno e imparare continuamente”. Però poi a definire una scuola partenopea starei molto attento. Dal mio punto di vista abbiamo fatto una drammaturgia riprodotta nel mondo. Abbiamo avuto Scarpetta, De Filippo, Viviani, una scuola molto forte.
A Napoli penso ci sia una propensione naturale per la recitazione. Secondo me abbiamo delle agevolazioni date dal carattere e gestuali, abbiamo un dialetto così armonico, tronco, ci favorisce su tantissime cose. Però può essere una grande gabbia. Personalmente da giovane avevo la paura di fare sempre ruoli napoletani e mi sono messo a studiare dizione, non per diventare un attore classico, bensì per il fascino verso il dialetto napoletano che, pur parlandolo quotidianamente fin dall’asilo, ho cominciato a studiarlo come avviene con l’inglese: a partire dalle regole della sintassi e seguendo lo sviluppo di questa lingua conosciuta nei secoli. Così anche con il Veneto, sostenuto oltretutto dal fatto che la mia ragazza è veneta. Il Siciliano, per “Paradise”, l’accento slavo per il film “Lasciati Andare” con Toni Servillo e Luca Marinelli. In sintesi, abbiamo delle caratteristiche uniche che ci rendono gli attori più tecnici del panorama ma non dobbiamo usare queste peculiarità come scudo. La nostra scuola diventa molto forte quando apre la porta di casa e comincia a esplorare il mondo allora si contamina con le altre culture e diventa tradizione. Questo modo di recitare, “in lingua”, viene compreso in tutto il mondo con tutte le sue peculiarità. “Tradizione” deriva anche da tradire, come mi ha insegnato Marco Martinelli (suo maestro agli esori ndr). “Gomorra” ne è la dimostrazione, è andata in giro per il mondo venduta in più di 200 paesi.

Credit Francesca Errichiello



Sei nato a Scampia. I primi quindici minuti di “Paradise” sono tutti di sguardi verso il personaggio. Il tuo mestiere si basa su questo. Come è cambiato negli anni lo sguardo di Vincenzo rispetto a quando riveli la tua provenienza?

Negli anni anche con interviste e incontri mi son sempre dovuto confrontare con questi sguardi che lasciavano intravedere “ah ma come è la vita lì?”. In realtà il mio sguardo fin da subito è cambiato proprio perché già so cosa aspettarmi. Con orgoglio dico che sono della periferia napoletana perché mi ha dato quelle caratteristiche di determinazione, di sfrontatezza che mi sono utili nel mio lavoro. Ho affrontato tanti luoghi comuni e li ho smontati tante volte. Oramai, è diventato anche un po’ di moda. Anche se ho sempre compreso da dove venivano queste obiezioni. Dicevano: “Quindi non sei di Napoli Napoli?”, “Ma Scampia è Napoli”. Così come quando Grillo disse: “In Parlamento ci sono più ladri che a Scampia” ero a Venezia e feci l’intervista per il Corriere del Mezzogiorno dove appunto dissi che Scampia è cambiata e questi sono solo luoghi comuni. Generalmente non ho mai avuto il complesso di dimostrare che sono una persona per bene. Per il resto, se qualcuno ha il pregiudizio o anche paura, perché vengo dalla periferia, ho sempre detto che mi fa comodo. Non la rifiuto per niente, ha anche un po’ di fascino essere cupo e maledetto.

Un’altra critica mossa a “Gomorra” è il suo alimentare o meno la criminalità. Cosa ne pensi di questo dibattito?

Il dibattito su Gomorra è antico. Se si pensa che già nella Grecia Antica c’era Aristotele che parlava della catarsi e diceva che bisognava leggere gli scritti dei poeti, per vivere questi atti violenti che compivano gli eroi per purificarsi dagli stessi. Dall’altra parte c’era Platone e diceva che nella sua Repubblica ideale i poeti dovevano essere cacciati perché con la loro capacità affabulatoria potevano traviare le menti dei giovani. A me sembra molto attuale come dualismo delle tesi e nonostante ciò penso che questa diatriba non si risolverà mai. Bisogna solo determinare da che parte uno vuole stare se aristotelico o platonico. Personalmente sono un Aristotelico credo nella forza della catarsi. Un’altra riflessione riguardo questo dibattito l’ho colta da Edgard Morin, uno dei più grandi pensatori della nostra epoca, in cui diceva che il cinema serve a comprendere la visione soggettiva del mondo. È chiaro che “Gomorra” o tanti film di Scorsese che hanno fatto la storia del cinema possono esplicitare un atteggiamento, ma il punto è che se qualcuno decidere di andare a delinquere è perché ha una storia particolare alle spalle. Non passi dall’essere uno studente universitario a un camorrista perché hai visto “Gomorra”, altrimenti funzionerebbe anche il meccanismo opposto. Per quanto mi riguarda devo molto a Saviano e al suo libro. Questo ha regalato a Scampia un’attenzione mediatica che ha portato un processo di rinnovamento che ha permesso la concentrazione di tanti finanziamenti su attività culturali (come Arrevuoto), tra cui il progetto di formazione ai mestieri del teatro con cui ho cominciato (Punta Corsara). Penso che più se ne parli, meglio è. Poi ho sempre sostenuto l’unica cosa che bisognava chiedere con forza ai realizzatori della serie era che la facessero bene e che tutto questo avrebbe portato lavoro sul territorio campano. Così è stato.

In Paradise si dice “Carnevale vuol dire essere qualcun altro che non sei per tutto il resto dell’anno” come hai plasmato la tua maschera?


Penso che sono tutti i difetti che ho ereditato da mio padre che era un attore amatoriale e aveva il sogno di farlo su grandi palcoscenici, nonostante una vita che poi alla fine lo ha portato in fabbrica. Se ti dovessi dire come ho plasmato la mia maschera, non saprei con certezza. Questa fisicità un po’ teatrale e un po’ cinematografica che fece intravedere a Marco Martinelli in questo mio “nasone”, quello di Pulcinella. Forse un po’ di destino, di fortuna che è diventata sfortuna, poi semplicemente cerco di stare attento a non rifarmi il naso.

Trailer del film “Paradise – una nuova vita

Non è solo una questione di naso. In “Paradise” sei riuscito con la tua tecnica e con il tuo talento a lavorare sul tuo viso e cambiare.

Penso che sia anche una caratteristica empatica, a seconda dei sentimenti, dello stato d’animo, del percorso di vita che si ha, la nostra faccia è la somma di tutto questo e delle esperienze che viviamo. Quindi il lavoro dell’attore è anche quello di far passare dietro la maschera quello che sta vivendo il personaggio. Per me, quando si deve affrontare questo lavoro va fatto offrendo le possibilità al personaggio di raccontarsi attraverso il volto ma senza particolari smorfie. È un lavoro di contenimento che diventa più una questione interiore.
Come dice Massimiliano Civica, regista teatrale con cui ho lavorato: “non è l’attore che emoziona, ma il racconto. Tu sei un grande attore e se devi fa la femmina non la devi fa ma la devi essere”.
Mi faceva fare la femmina, però quella cosa mi illuminò. In un altro momento del film, questo Calogero che è sempre stato un puro, un bravo ragazzo, uno che prova a essere coraggioso per imparare a esserlo, quando la moglie gli dice “gli abbiamo dato quello che volevano” lì sentivo che il personaggio cambiava proprio faccia. Cambiavano le cose che lo muovevano, così anche per questo alla fine il suo volto è diverso, perché il suo vissuto è diverso. Poi il tentativo che cerchi di fare è trasmettere al pubblico, lo sguardo, la consapevolezza alla quale è arrivato il personaggio.
Per il mio personaggio, Calogero, ho studiato un anno e ho empatizzato con lui come si fa con le persone vere, altrimenti non sarei stato emozionato quando ho vissuto quelle scene, ero emozionato per la sua storia e non per i fatti miei.

Ora con “Paradise” il primo ruolo da protagonista. Com’è stata la preparazione per il ruolo di Calogero e il rapporto con Davide Del Degan?

Ricordo che abbiamo spostato il film e ho avuto un anno di tempo per prepararmi. Davide è stato particolarmente corretto nei miei confronti perché gli dissi chiaramente “io lo posso fare, però ho bisogno di tempo”. Come dice Toni Servillo “non è che faccio le pizze, mi chiedi una margherita e ho gli ingredienti”. Per me è tutto un lavoro di scoperta e studio e ho fondato tutta la mia vita su questo. Per questo ruolo ho studiato con un coach prima del set e, durante le riprese, ho potuto contare sul supporto dei colleghi siculi.
Sono arrivato a “Paradise” con una consapevolezza crescente. Precedentemente avevo fatto delle esperienze al cinema con dei ruoli progressivamente sempre più importanti, poco prima ero in “Martin Eden” in cui affiancavo Luca Marinelli, lo stesso anno “5 è il numero perfetto” con Toni Servillo Valeria Golino e Carlo Buccirosso. Poi prima ancora avevo fatto undici anni di compagnia teatrale dove abbiamo fatto drammaturgia contemporanea e scrittura di scena. Sicuramente per come ho incontrato Davide Del Degan è stato evidente che avevamo una storia in comune, una sensibilità spiccata nel tempo che ci permetteva di essere affini e capirci molto facilmente
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Riguardo gli undici anni di teatro cosa c’è in questo film di quel bagaglio di esperienze?

Dal teatro mi sono portato quel lavoro di compagnia che in maniera ossessiva sto cercando di trovare anche al cinema. L’ho ritrovato con Davide Del Degan che mi ha coinvolto in un processo creativo come artista e non solo come scritturato e ingaggiato. Ad esempio, alcune improvvisazioni realizzate in fase di prova da me e dai miei colleghi sono entrate nel film. Con Davide ho ritrovato quel tipo di mentalità che c’era con Emanuele Valenti che è stato uno dei miei primi maestri. Se non avessi fatto undici anni di teatro avrei approcciato a Paradise in una misura troppo corretta, troppo pulita per la distanza con il personaggio, invece Davide è stato bravo a coinvolgermi proprio dal punto di vista emotivo. La mia partecipazione nel processo di costruzione del film è stata a 360 gradi. Questo mood ha fatto in modo che “Paradise” diventasse una famiglia cinematografica proprio come una compagnia teatrale, facendo sentire il prodotto ultimo di tutti e non solo del regista. 
Ti faccio qualche esempio. Dei cinesi che avevano parcheggiato in un punto che copriva l’alba e avevamo 3 minuti per fare in fretta e girare, tutta la troupe ha scaricato le valige di questi signori per non perdere la bellezza di quella luce. Succede solo quando hai un leader che riesce a coinvolgere tutti in un processo creativo e a imporsi talvolta non facendoci sentire degli scritturati.

Paradise

Quanto spazio c’è stato per l’improvvisazione?

Davide è stato un grande perché ha preteso lunghissime prove ed è stato fondamentale il teatro in questo. Nel processo creativo Davide ha voluto darci dei compiti che stimolavano la nostra creatività e ci avvicinavano emotivamente al personaggio. Abbiamo fatto queste lunghe sessioni di prova soprattutto con Giovanni Calcagno, meraviglioso collega, dove Davide ci dava dei compiti d’improvvisazione, lavorava con noi sui personaggi parlava di questioni drammaturgiche. Tante improvvisazioni che sono nate poi sono finite nel film. Abbiamo improvvisato anche a cinque minuti dalla chiusura del set. Come ad esempio la scena dove mi metto la tinta (contenuta anche nel trailer ndr), abbiamo fatto un ciak singolo. Ci era venuta in mente l’idea che lui si tingeva e ci dicevamo “immagina quanto sarebbe bello far vedere che si tinge, ci vorrebbe un po’ di yogurt”. Fatto sta che finiamo cinque minuti in anticipo, e solo grazie alla disponibilita’ di tutta la troupe e al desiderio collettivo di raccontare bene la storia di Calogero siamo riusciti in pochi minuti a mettere insieme gli elementi che ci servivano. Davide e Debora Vrizzi (la direttrice della fotografia) hanno piazzato la camera e ci siamo giocati gli ultimi 30 secondi della giornata di set. Mi ricordo che Davide mi disse “C’è tempo per un solo ciak, non ti dico nulla, vai tu Vincenzo” ed è andata così.

Prima di arrivare a questo importante passo da protagonista, hai avuto dei momenti di sconforto? Come ti sei tirato su? Quale frase ti ha aiutato?

I momenti di sconforto ci sono nonostante questo sia un momento molto positivo, se consideriamo l’aspetto lavorativo. Però in passato c’è stata anche una progressiva accettazione di quella che è una natura del mestiere. Ho trovato negli anni sempre più sollievo nello studio della filosofia del mestiere, quindi a pensare al mio lavoro prima di farlo. Fin dall’inizio ho cercato di utilizzare i momenti che non lavoravo come un’opportunità per approfondire degli studi, per farmi delle domande che spesso non puoi farti quando sei molto impegnato. Innanzitutto, non ho mai considerato il teatro come l’anticamera del cinema, quindi quando facevo teatro non ero frustrato perché non facevo il cinema. Ho rifiutato progetti importanti con ruoli da protagonista sul grande schermo proprio perché ero impegnato a teatro e non potevo rinunciarci. È un’attitudine su cui bisogna lavorare perché “non siamo attori solo quando lo facciamo”. Questo è un insegnamento che ho preso proprio da Servillo che mi ha insegnato la differenza tra l’essere e il fare l’attore. Io sono attore anche quando non lo faccio. Molti che lo fanno, anche più spesso di me, non lo sono. Oltre tutto ciò ho sfruttato i momenti di vuoto lavorativi per completare i miei studi universitari. Credo che ogni attore attraversi delle fasi in cui deve porsi delle domande e capire se ha una propensione verso l’incertezza. Se ti manca e ti procura più dolori che piaceri non so quanto ti convenga, questo lavoro ti deve rendere la vita più bella devi essere più sereno per raccontare le storie. Nonostante abbia una prospettiva rosea sono perfettamente consapevole che il successo può finire. Ho avuto la fortuna di avere come maestro Toni Servillo che mi diceva “tutto questo passa. Il lavoro a teatro è la metafora di questo lavoro perché ogni sera riparti da zero.” Capisci che quando non entra un film o uno spettacolo è un momento per fermarsi e osservare il mondo. Infatti, ho cominciato a scrivere le mie cose, ho portato avanti un lavoro di compagnia che non ho mai voluto interrompere quando venivo scritturato per un film. È normale che delle volte un attore lavori poco, prima ci fai pace meglio è. Ho sempre saputo che questo lavoro era così e ho sempre tenuto alla mia voglia di raccontare, per questo anche di fronte alle difficoltà, non ho mai mollato.

Hai detto che hai “cominciato a scrivere le tue cose” ce ne puoi parlare? Dove ti vedremo prossimamente?

Attualmente sto scrivendo un corto un po’ perché vorrei iniziare a raccontare le mie storie e un po’ come esercizio di scrittura che sento aiuta la mia consapevolezza d’attore. È una sorta di romanzo di formazione. Sto scrivendo anche con mio fratello (Luca Nemolato ndr) che ha partecipato ad un film vincitore di un Oscar (“The Shape of water”) una graphic novel ambientata a Napoli. Come attore sto per iniziare le riprese a Roma per un nuovo progetto del quale non posso ancora parlare, un’esperienza musicale del tutto nuovo e del quale spero di parlarvi presto. Sono molto contento è un’avventura che non ho mai affrontato, sono molto orgoglioso e molto felice.



Noi lo siamo con te, auguri.


credit immagine evidenza Francesca Errichiello

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