Gli avvocati che difendono Massimo Bossetti, condannato in via definitiva per l’omicidio di Yara Gambirasio, potranno accedere ai reperti – 54 campioni di dna e abiti della vittima – e sperare così, alla luce eventuale di nuovi elementi, nella revisione del processo in cui è stato condannato all’ergastolo. Era il 26 novembre di dieci anni fa: quel pomeriggio Yara, una ragazzina di 13 anni, uscì da casa sua, a Brembate sopra, per andare a consegnare uno stereo nella palestra di via Locatelli, centro che frequentava abitualmente. Erano le 17,30. Non tornò mai a casa.
La ritrovarono dopo ricerche di ogni tipo in un campo di Chignolo d’Isola, una località non distante dal luogo in cui Yara era stata vista per l’ultima volta. La povera ragazza, stabilì l’autopsia, era morta delle ferite che l’assassino gli aveva inferto, abbandonandola nel campo, e di freddo. E’ stata inseguita, dicono i reperti, aggredita sessualmente e lasciata lì tra rovi e fango.
Massimo Bossetti, un falegname del posto, è stato riconosciuto come l’unico colpevole (ci vorranno 4 anni per prenderlo, seguendo le tracce del dna di “Ignoto 1”) e condannato all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Yara è oggi una onlus che sostiene con progetti in ambito sportivo, artistico e musicale ragazzi che hanno difficoltà economiche, l’hanno voluto i genitori. Bergamo le ha intitolato la Casa dello sport. “Saremo felici quando nelle ricerche di Google con il nome di Yara non compariranno articoli di cronaca nera ma quelli sulla nostra associazione” ha detto il padre.
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