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25 aprile, Cuperlo: “No all’amnesia creativa, si coltivi la memoria”

Pubblicato il 24 Aprile, 2021

Domani è 25 aprile. Si vuol celebrare la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal regime fascista. Gianni Cuperlo è stato ospite dell’Anpi aquilana ieri pomeriggio: con William Giordano, Sara Vegni, don Dante Di Nardo e Alessia de Iure. Si trattava di promuovere la memoria di quei fatti incancellabili. Queste le sue parole. “Bisogna legare il 25 aprile a quello che siamo oggi: ai problemi, ai limiti, alle contraddizioni che viviamo. Provo ad arrivarci, per un sentiero un po’ accidentato. Gli anniversari, le date di un calendario civile si dispiegano di fronte a noi. Ciascuno di noi, poi, ha un suo calendario privato. Sono le date della tua vita: quando ti sei sposato, hai perso una persona cara, hai avuto una bambina o due. E’ capitato a tanti. Il calendario privato è diverso per ciascuno di noi. Siamo accomunati, invece, da un calendario civile: da alcune date, che invece hanno scandito la nostra crescita, formazione di uomini e donne parte di questo Paese. Queste date del calendario civile, ciascuno se le costruisce nel tempo, ciascuno percorrendo vie diverse. Sono date che ciascuno si cuce addosso. Nel mio caso, sono nato e cresciuto sul confine più tragico e più lacerato del nostro Paese. Questo insegnamento mi è venuto soprattutto dal 25 aprile e da una cerimonia alla quale a me è capitato di prendere parte come spettatore, per molti anni, per decenni. All’inizio comprendevo molto poco di quello che accadeva in quella cerimonia, anche se sentivo che quello era un luogo unico: un luogo faticoso e molto doloroso. Poi, entrando dentro quella storia e penetrando un po’ meglio la sua dimensione tragica, qualcosa è cambiato. Quel luogo è la Risiera di San Sabba, si trova a Trieste, che è la mia città. E’ un edificio, un monumento nazionale, che rimane di fianco allo Stadio, che oggi è intitolato a Nereo Rocco, lo storico allenatore triestino. La Risiera di San Sabba è stato l’unico campo di sterminio nazista in Italia. Fino alla pandemia, ogni 25 aprile ha riunito in quel perimetro migliaia di persone, triestini e non solo. Alla fine del ’45, fuggendo, i tedeschi fecero saltare in aria, esplodere il forno crematorio, nel tentativo di cancellare ogni traccia di quella atrocità. Oggi al posto del forno c’è una larga pedana in acciaio, che in qualche maniera ne ripercorre il perimetro. Non c’è più l’edificio, la palazzina, ma il segno di quel che era quel luogo. Attorno a questo rettangolo di lamiera, finché si è potuto a ogni anniversario il 25 aprile hanno trovato posto le autorità civili e quelle religiose, al plurale: i cattolici, il rabbino, gli ortodossi. La mia città, del resto, è stata nel tempo un porto di mare, in senso letterale. Quell’appuntamento, con il suo rito, è sempre stato un momento molto intenso, che la città ha vissuto in maniera molto partecipata e che io ho imparato a conoscere fin da bambino, quando mi ci portavano i miei genitori. Ho vissuto per anni l’atmosfera di quella giornata: il minuto di silenzio, i discorsi, le preghiere, i segni della deportazione, le decorazioni delle associazioni partigiane, e poi con il passare del tempo su quel piazzale ovviamente sono arrivati sempre meno testimoni diretti. Man mano che calava il numero dei testimoni diretti, tuttavia, è cresciuto il numero dei giovani, che partecipavano a quella cerimonia: chi era nato anni, a volte decenni, dopo la fine della guerra. Quei ragazzi in un certo modo sono il segno della potenza della memoria, che poi è un tratto abbastanza fondante della civiltà europea: in questo senso abbiamo una mentalità diversa di quella di Oltre oceano. Per Henry Ford la storia era una sciocchezza, faceva l’elogio dell’amnesia creativa, ogni giorno era il primo giorno. Invece, per l’Europa, la memoria è parte integrante dell’identità. Perché in fondo la barbarie si è consumata nel cuore dell’Europa, anche nella terra di confine dove sono nato. La presenza dei ragazzi è un po’ il segno di quello che la memoria può fare. Loro hanno conosciuto le vicende di cui parliamo sui libri di storia, o al massimo sulle foto in bianco e nero dei repertori dell’epoca. Eppure sanno“.

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