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TALENT SCOUT DI AUTORI – Francesca Lenzi

Pubblicato il 22 Maggio, 2021

Di Gordiano Lupi

Francesca Lenzi è proprio una mia scoperta, come scrittrice di narrativa, chiaro, non come giornalista, ché lei scrive da anni articoli mai banali su Il Tirreno, interviste interessanti ai protagonisti del calcio locale, campionesse di volley come Sarah Fahar, registi come Pupi Avati, autori di narrativa contemporanea. Insomma, che Francesca Lenzi non sia una semplice giornalista di cronaca locale pare evidente solo scorrendo un suo breve pezzo, così come se ci imbattiamo nella lettura di DeGregorio, Lozito, Morandini, Schiavina, Carletti, Cecchi ci rendiamo conto che non sono semplici giornalisti di cronaca. Insomma la redazione del Tirreno di Piombino è composta da veri scrittori, una fucina di talenti letterari. Tra questi abbiamo pescato il jolly di Francesca Lenzi, competente saggista di cinema, cinefila horror e appassionata di Fellini (enza soluzione di continuità), amante di King, Poe e Lovecraft. Indiana libera tutti è stata una rivelazione narrativa – prima c’era stato un breve ma intenso racconto pubblicato su Piombino in love – che ha mostrato al (piccolo) mondo letterario le doti di una narratrice completa, capace di fondere ricordi d’infanzia e fantasia in un affresco generazionale scritto nei panni di una ragazzina adolescente che freme dalla voglia di crescere. Francesca se la cava bene con la forma breve, il racconto è la sua dimensione ideale, anche Indiana lo possiamo leggere come una raccolta di storie brevi unite dal filo conduttore della protagonista. Molto brava nel descrivere personaggi e approfondire caratteri, nel racconto che vi presento troverete un umorismo nero, grottesco, molto inglese, un po’ alla Pupi Avati di Tutti defunti tranne i morti. Piero, il protagonista, è un ex operaio dell’acciaierie pensionato a 55 anni (come ce ne sono tanti) che passa il tempo a temere la morte, senza particolari interessi o passioni, con le giornate sempre uguali, scandite solo dalla sua ipocondria (pare un protagonista di un fumetto di Tito Faraci e Silvia Ziche). Francesca continua con la sua idea di ambientare le storie a Piombino, inventando i nomi delle strade, la toponomastica, infatti troverete nella storia un inesistente angolo tra via Pertini e via Berlinguer (luoghi reali della città, ma non fanno angolo!). Il finale è sconcertante, il tutto è condito da ottima suspense narrativa, degna di un thriller. Vi lascio alla lettura, dopo le note biobibliografiche. (Gordiano Lupi). 

Francesca Lenzi (Piombino, 1978). Giornalista, collabora da oltre dieci anni con il quotidiano Il Tirreno. Laureata in Storia e critica del cinema con una tesi su Dario Argento, ha vinto il saggio sul cinema al Concorso internazionale di Salò, e l’edizione 2020 di Raccontare Campiglia; ha pubblicato alcuni testi di critica cinematografica e contribuito con un saggio al volume Argento vivo (Marsilio, 2008). Ha collaborato con il Video Festival internazionale Visionaria come responsabile del corso sul cinema e al FIPILI Horror Festival nella giuria per le opere internazionali.

Disegna per passione, preferibilmente soggetti di ambito cinematografico. Indiana libera tutti, pubblicato da Edizioni Il Foglio nel 2020, è stato il suo primo romanzo.

BIBLIOGRAFIA 

Saggi sul cinema: 2007 – Dario Argento, da Suspiria alla Terza Madre: Inferno (Profondo Rosso);  2008 – La maschera del male. Il cinema di Rob Zombie (Edizioni Il Foglio); 2008 – Argento Vivo. Il cinema di Dario Argento (Marsilio Editori) Contributo; 2009 – Dario Argento: Tenebre. L’analisi del film (Profondo Rosso); 2011 – Zombi! George A. Romero e il cinema dei morti viventi (Profondo Rosso). Narrativa:  2020 – Piombino in love (Edizioni Il Foglio). Racconto “Edoardo e Giovanna”; 2020 – Indiana libera tutti (Edizioni Il Foglio). Romanzo; 2020 – Raccontare Campiglia(Edizioni Il Foglio). Racconto “ElBechin”, vincitore dell’edizione 2020 dell’omonimo concorso.

PIERO E IL PECCATO DI DOVER MORIRE

Piero Giannini aveva sempre pensato che fosse un peccato morire.

E, ogni volta, che gli era sembrato di esserci vicino, aveva immancabilmente trovato un pretesto per non farlo.

E di cavilli per continuare a vivere, Piero ne aveva individuati parecchi nella sua esistenza di ipocondriaco.

Piero era un uomo semplice. Da bimbetto aveva lavorato come ciabattino alla bottega di via del Fossato e, quando aveva raggiunto la maggiore età, era riuscito a entrare alle acciaierie. Prima al reparto di laminazione, poi gli era toccato un decennio in fossa, per spostarsi infine all’altoforno.

A ogni cambio turno, scendeva le scale esterne appoggiando la mano destra sulla ringhiera, e poi seguiva il corrimano sino in fondo. Quando la staccava, se la portava davanti alla faccia: era nera, piena di quella polvere di carbone che sembrava velluto sotto le sue dita di operaio specializzato.

Era rimasto lì, all’Afo5, fin quando non gli era toccata la pensione. Aveva 53 anni e molti altri ancora davanti a sé per non fare altro che preoccuparsi di non morire.

Sapeva tutto su ciclo integrale e processo di arricchimento, ghisa e billette ma, per il resto, non si era mai appassionato ad altro. Guardava la televisione in maniera passiva, ascoltava con poco interesse la musica alla radio, leggeva soltanto il quotidiano sportivo e, anche di quello, non leggeva proprio tutto tutto, limitandosi e titoli e sommarietti.

Insomma, con tutto il rispetto del caso, il mondo probabilmente sarebbe andato avanti pure senza Piero Giannini che, però, aveva sempre ottimi motivi per non morire. Lui che pensava di essere ininterrottamente sul punto di passare a miglior vita.

Che espressione stupida! Cosa significa a miglior vita? Quale vita migliore può esserci se ne abbiamo solo una a disposizione?

Pensava questo, Piero, ogni volta che si ritrovava a rifletterci sopra.

Come quella volta che, a 15 anni, mentre armeggiava con la suola di una scarpa, sentì improvvisamente un dolore al petto.

O anche come quel giorno in cui, a 32, mentre era al turno di notte in fabbrica, gli venne una fitta esagerata alla tempia destra.

E perché non come quell’altra volta che, appena 51enne, gli s’informicolò la gamba sinistra. E gli ci volle parecchio tempo prima di sentirsela nuovamente a posto.

Nel mezzo, fra un episodio e l’altro, tanti altri piccoli e grandi malesseri. Più che malesseri, avvisaglie di una qualche malattia non ancora diagnostica, dalla prognosi chiaramente infausta.

A ogni sintomo percepito, Piero immaginava la relativa patologia, e il tempo che gli restava, o meno, da vivere. E tutte le volte trovava ingiusto dover morire proprio in quel momento.

Proprio a quell’età.

Proprio il giorno prima dell’appuntamento con la ragazzina che gli piaceva tanto. Proprio quando era nel fiore degli anni e aveva appena comprato l’automobile nuova. Proprio a un passo dalla pensione.

Proprio la sera prima della finale di Coppa Campioni.

Proprio adesso che aveva rinnovato l’abbonamento a Sky.

Il medico di base a cui era toccato Piero Giannini se lo vedeva arrivare un giorno sì e un giorno no in ambulatorio. Ogni volta con un problema grave da affrontare. Poteva essere un approfondimento su quel dolorino al fianco che il dottore aveva colpevolmente minimizzato, oppure un fastidio del tutto nuovo, ancora da valutare.

Era un lunedì di inizio primavera, quando Piero uscì di casa presto per andare in ambulatorio. Voleva essere uno dei primi, per avere poi tutto il tempo di spostarsi alla posta per riscuotere la pensione.

Di lì a un paio di mesi avrebbe compiuto 83 anni, molti dei quali trascorsi per inerzia, con il solo pensiero di quanto fosse brutto dover morire.

Con il dottor Gori avrebbe dovuto chiarire quel prurito strano che gli faceva un neo sull’avambraccio destro. Qualche settimana prima gli aveva chiesto se non fosse il caso di indagare più a fondo la questione, ma il medico aveva risposto con un sorriso, scuotendo la testa.

E poi c’era la faccenda del raspino in gola che gli dava sempre più noia, mentre la sera prima – e questo disturbo sarebbe stato una novità per il dottore – si era sentito un bozzo sotto la pelle, proprio alla bocca dello stomaco.

Si era spaventato moltissimo e ritenne che fosse il caso di partire proprio da quello nel raccontare al medico cosa non andasse nel suo vecchio e malandato corpo.

In realtà Piero Giannini finì una sola volta all’ospedale in tutta la sua vita. Aveva 27 anni, era nel reparto di laminazione e, muovendo delle lastre d’acciaio con un sollevatore magnetico, una gli cadde su una gamba.

Per il resto l’intera sua esistenza scivolò via senza intoppi di salute. Avrebbe potuto essere una vita felice e serena, se non avesse avuto così paura di dover morire da un momento all’altro.

La sua era una vera e propria ossessione.

Non aveva tempo per altro. Doveva lavorare, questo sì, ma per il resto spendeva i suoi giorni dietro alla percezione di un nuovo sintomo e alla prospettiva di una malattia mortale che l’avrebbe strappato troppo presto a questo mondo.

Così fissato com’era, non ebbe neppure l’occasione, o la voglia, di farsi una famiglia che avrebbe inevitabilmente tolto spazio alla sua costante preoccupazione.

Quel lunedì mattina d’inizio primavera era particolarmente angosciato. Quel bozzo sotto la pelle proprio alla bocca dello stomaco doveva essere qualcosa di grave. Ne era sicuro. Stavolta non si sarebbeaccontentato di un sorriso bonario da parte del dottor Gori. Avrebbe preteso adeguati accertamenti. Perché Piero non se la sentiva di morire proprio ora che aveva acquistato un televisore nuovo al negozio all’angolo fra via Pertini e via Berlinguer.

Aveva una brutta sensazione. Mai come prima di allora si sentiva alla fine. Per nulla pronto ad andare incontro alla nera signora.

Teneva la testa bassa e la mano destra appoggiata sul bozzo alla bocca dello stomaco, spuntato fuori nella notte, quando si ritrovò ad attraversare la strada che divideva la farmacia dall’ambulatorio medico.

Non badò all’auto che correva veloce – fin troppo veloce avvicinandosi alle strisce pedonali – e non se ne accorse neppure quando gli piombò addosso, dopo un minimo e inutile accenno di frenata.

Piero Giannini volò qualche metro più indietro e crollò a terra sull’asfalto riscaldato dal sole dei primi giorni di maggio.

Non ebbe modo di preoccuparsi di quell’automobile, né del volo, né dell’atterraggio.

Non avrebbe dovuto, però, neanche svegliarsi più con l’ansia di scoprire nuovi malesseri.

Non sarebbe dovuto uscire presto la mattina per andare in ambulatorio.

Non avrebbe dovuto affliggersi di una dipartita lenta e inesorabile.

Lì, con la faccia schiacciata sull’asfalto, e una pozza di sangue che pian piano si allargava bagnando i pochi capelli bianchi che gli erano rimasti in vecchiaia, Piero Giannini ebbe solo il tempo di rendersi conto che, finalmente, non avrebbe più dovuto preoccuparsi di nulla.

E si addormentò per sempre, con le labbra rinsecchite incurvate in un sorriso. Precipitando in un sonno eterno, come il più giusto e pacifico fra gli uomini sulla terra.

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