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TALENT DI AUTORI – ANDREA FANETTI

Pubblicato il 15 Giugno, 2021

Di Gordiano Lupi

Andrea Fanetti, nasce nel Comune di Castelnuovo di Val di Cecina (Pi) nel 1956, perito meccanico, pensionato, ex-impiegato Magona d’Italia, è sposato con due figli. Ha avuto impegni in campo politico e sportivo. Presidente dall’Associazione Culturale  Covergreen, che valorizza e promuove le copertine dei vinili anni ’60 -’70. Per Il Foglio Letterario Edizioni ha pubblicato tre libri: nel 2017 il romanzo di esordio La Piazza in Mezzo al Mare, che ha vinto la 3° edizione del premio nazionale Giovanni Bovio di Trani. Nel 2018 il secondo romanzo Dalla neve al Fango, vincitore del premio letterario Emilio Agostini 2019 del Circolo Culturale Emilio Agostini di Sassetta (Li). Nel 2020 il terzo romanzo L’assassino e il pettirosso. In libreria, da poco più di un mese il suo ultimo lavoro: Nuvole passanti, un compiuto affresco generazionale che racconta l’Italia dagli anni Sessanta a oggi, grazie a un gruppo di personaggi che ripercorre le rispettive esistenze. Andrea Fanetti posso definirlo una mia scoperta letteraria (anche se a questo proposito mi viene a mente la battuta di Franco Franchi rivolta a Modugno: Mi ha scoperto solo la levatrice!), anche se proviene dalla scuola di scrittura creativa di Irene Di Natale, dove ha affinato qualità innate e ha appreso rudimenti di tecnica. Il suo stile è semplice e colloquiale, narrazione pura, di taglio classico, se fosse un film avrebbe un montaggio consequenziale. Fanetti compone affreschi narrativi maremmani senza mai rinunciare alla trama, passando dal giallo al thriller, toccando le storie esistenziali e il romanzo di formazione. Scrive anche poesia, ma è un narratore puro, nelle sue opere tocca argomenti che gli sono cari e che conosce benissimo: i problemi della sua città, la politica, la musica, i ricordi del passato, le vicissitudini familiari. Vi lascio in compagnia di un racconto che – come spesso accade con le opere di Andrea – profuma di mare e salmastro. 

La Panchina che guardava il mare

Ci lasciammo che non avevamo nemmeno trent’anni e non volli più una donna accanto a me. In qualche modo mi sarei arrangiato nelle cose di tutti i giorni, tipo mantenere la casa o far da mangiare: non era questo che mi preoccupava. Finimmo discutendo anche su cose banali, quelle che scoppiano e seminano rancore facendo da perfetta cartina di tornasole di una situazione che si deteriora. Figli non ne avevamo e una sera d’inizio estate ci guardammo in silenzio negli occhi, a lungo. Ci saremmo sempre voluti bene, ci abbracciammo e non dicemmo niente, la sua valigia era già pronta sul letto, i suoi avevano una grande casa e l’avrebbero accolta volentieri: finalmente era di nuovo con loro, la loro bambina. Dopo quasi otto anni, era semplicemente finita, ognuno avrebbe ripreso la sua strada e c’era da considerarsi fortunati rispetto a chi si disprezza o fa a botte, oppure insiste a voler rimettere insieme quel vaso di ceramica caduto per terra e andato in mille pezzi. 

Col passare degli anni calarono passioni e frequentazioni anche se, a essere sincero, di amici ne ho sempre avuti pochi: stavo nei gruppi per inerzia dove non coltivavo nétantomeno approfondivo le conoscenze. A dire la verità, dopo la fine del rapporto con la mia compagna, un grande amico l’ho avuto, un amico di quelli veri, al quale racconti di un investimento sbagliato o che ti sei preso una sbandata per qualche donna e sai che certe cose rimarranno fra noi: più che la condivisione di passioni, un’amicizia è la condivisione di segreti. Nedo però, se ne andò lontano, lì non aveva un lavoro regolare e me lo cominciò a dire un anno prima di partire che avrebbe cercato qualcosa, ma non credevo finisse in Australia. All’inizio ci scrivevamo assiduamente, avevamo bisogno di un parere reciproco su quello che facevamo e le conservo ancora tutte quelle lettere in una scatola con sopra scritto Australia, nemmeno Nedo, Australia. Dopo, le lettere furono soppiantate da Internet e divenne molto più facile avere un contatto via e-mail, o mandarsi immagini e foto. Eppure lentamente muore, come direbbe Martha Medeiros e le cose scemarono, quasi non ci fosse stata più voglia di comunicare. 

Via da un gruppo, via da quelli che erano stati gli affetti più cari e senza genitori ormai da un tempo infinito, non sapevo reinventare il mio quotidiano. Pian piano, da quel treno che era la mia esistenza, stavano scendendo tutti; sembrava che ogni stazione fosse buona perché le carrozze si svuotassero ed è triste quando  le vedi passare e dentro non c’è quasi nessuno. Però speri di arrivare in un’altra stazione dove magari qualcuno sale e fa un altro bel tratto di viaggio con te. Invece i vagoni di quel convoglio furono parcheggiati in un binario morto ad arrugginire. 

Non potevo continuare, sapevo che prima o poi sarebbe arrivata la fase dell’autodistruzione e avrei cominciato a bere quei vini da due soldi che ti spaccano lo stomaco. La consapevolezza di essere davvero solo arrivò così, veloce e dura; non andavo più d’accordo con quello che mi circondava, fossero questi luoghi o persone. L’unico amico vero era via da anni, non avevo compagne di vita, non coltivavo più interessi. Ad un certo punto pensai anche di farla finita seppur c’era chi andava avanti con problemi ben più gravi dei miei. Non sapevo comericominciare, ma sapevo che con la gente ci stavo male. 

Sembra strano a dirsi, ma mi venne in aiuto un luogo che di per sé richiama un’estremità e la libertà, Punta Falcone. La panchina che mi ero scelto, guardava il maree il punto dove si trovava era talmente isolato che bisognava camminare almeno una ventina di minuti dal piccolo parcheggio sterrato per arrivarci. Si saliva per la macchia del piccolo promontorio, poi si scollinava e dopo aver superato un cannone e un paio di vecchie postazioni militari, si proseguiva per un viottolo verso quella parte di terra protesa verso l’arcipelago. Ci andavo nei giorni feriali, perché il sabato e la domenica non era raro che diverse persone ci arrivassero per fare delle foto o ammirare il panorama. Sulla punta di Punta Falcone mi mettevo seduto, guardavo le isole, lasciavo che mi accarezzasse il vento e mi picchiasse il sole in faccia: era un posto magico, quasi la prora di una nave che sembrava andare a sbattere sullo scoglio davanti a lei. Ci sono stato in tutte le stagioni anche se faceva un po’ di pioggia o col freddo pungente; quella volta era una mattinata di sole: “Posso sedermi anch’io?”

Fui colto di sorpresa. Non avevo messo nel conto che qualcuno fosse arrivato fino a lì in un giorno qualsiasi, alla mia panchina. Avrà avuto trent’anni e non era certo bella; la tuta da ginnastica le stava larga e le toglieva anche la poca femminilità che poteva avere. Mi spostai su un lato facendole segno di sedersi sull’altro. Ero quasi disturbato dalla sua presenza, come se pretendessi garantita la mia solitudine; stava usando quel luogo che sentivo mio e dove venivo per stare in pace. Dopo almeno cinque minuti di assoluto silenzio fu lei a parlare: “Sei sempre così loquace?”

“Sì, non sono più tanto abituato a parlare con la gente”.

“Problemi? Sei senza casa? Non hai soldi?”

Che cavolo voleva questa? Chi ce l’ha mandata a farmi l’interrogatorio? Cosa gliene frega di me? Ma non aveva altro da fare oggi, che venire qui? Nemmeno girai la testa, stavo con la faccia dritta per evitare il suo sguardo dedicandomi alla vista dell’Elba.

“No, una piccola casa ce l’ho e anche qualcosa in banca”.

“Ah, mi sembravi un barbone; scusa se te lo dico sai, ma l’impressione era quella”.

“Lo so e francamente non me ne frega niente”.

“Sei solo?”

“Sì, e voglio rimanere solo”.

“Non ti preoccupare; io non te la faccio compagnia, non voglio dar noia, scusa tanto sai. Comunque se posso permettermi un consiglio, datti una lavata, fatti barba e capelli. Poi una casa e qualche soldo li hai, ma di che ti lamenti? Sai in quanti stanno peggio?”

“Tu parli di beni materiali, ma io sto male dentro”.

“Stare male dentro come dici tu, è un lusso che si può permettere chi non sta peggio fuori. Ciao, tolgo il disturbo!”

Si alzò, girò il culo e riprese su per il viottolo sterrato. La seguii per qualche minuto, poi ritornai a guardare il mare. Aveva per caso ragione? Certo se non avessi avuto nemmeno quei pochi metri quadri dove abitare o qualche soldo da parte, sarebbe stato davvero un casino. L’incantesimo però era rotto, mi alzai e presi anch’io lo stradello di ritorno, magari se acceleravo il passo l’avrei vista, richiamata, non poteva essere troppo lontana. Camminavo salendo di buona lena e mi stupii di non vederla nemmeno in quel punto dove c’è una bella dritta, forse aveva preso uno dei tanti viottoli laterali che portavano nella macchia, ma era molto strano, camminava decisa e non mi pareva volesse perdere tempo. Arrivato allo spiazzo sterrato c’era un uomo di una certa età che leggeva un giornale in macchina, coi finestrini abbassati: “Scusa non hai mica visto una ragazza sulla trentina, con una tuta da ginnastica che le stava un po’ larga? È venuta giù nemmeno un’ora fa; ora è tornata via ed è passata per forza di qui”.

L’uomo abbassò gli occhiali, mi dette una squadrata da capo ai piedi poi ricominciò a leggere il giornale senza continuare a guardarmi: “Io sono qui da più di un’ora e non ho visto nessuno; dammi retta, accetta un consiglio, bevi meno che di mattina fa male”.

Oggi continuo ad andare a quella panchina che guarda le isole, perché ci sto bene, ma quella ragazza bruttina non è più venuta e spesso mi ritorna in mente la frase di queltizio. Mi commossi a guardare a largo, scorgere le isole equel sole che andava a riposare dietro a Monte Capanne:vediamo così spesso questa meraviglia che non ci sembra più nemmeno così fantastica perché ci si abitua a tutto, al male e al bene, al brutto e al bello. Ho saputo anche che quello che ho sempre visto dritto davanti a me è il confine invisibile tra due mari e ho riflettuto proprio sull’impossibilità di fare una riga nell’acqua a marcare questa separazione, fino a non sapere se stai da una parte o dall’altra, proprio come quando fai i conti con la tuacoscienza.

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