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Pesca, lo studio dell’Università di Catania: necessari interventi della scienza e della politica

Pubblicato il 16 Settembre, 2021

La pesca marittima tra sostenibilità e sfruttamento delle risorse. Un tema che da decenni è al centro degli studi dei ricercatori e anche di discussione del mondo politico nazionale e internazionale. Basti pensare che in Italia l’intero settore rappresenta la fonte di reddito per numerose famiglie (oltre 20mila gli addetti) oltre che a racchiudere culture e tradizioni strettamente legate all’identità e alla storia del territorio.

Una materia non esente da problematiche inerenti lo sfruttamento delle risorse e alla sostenibilità anche per la diversità di attrezzi professionali utilizzati lungo le coste italiane che permettono la cattura e lo sfruttamento di specie alieutiche diverse. Tra queste spicca la pesca a strascico, sicuramente la tipologia di pesca maggiormente accusata dello sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche, o, più sinteticamente, di overfishing.

Temi che necessitano di risposte, alcune delle quali possono essere trovate nella ricerca condotta da Francesco Tiralongo, ittiologo all’Università di Catania insieme con Emanuele Mancini, Francesco Paladini de Mendoza, Stephanie De Malherbe, Marco Marcelli e Roberto Minervini dell’Università della Tuscia, con Daniele Ventura dell’Università “La Sapienza” di Roma, con Massimiliano Sardone e Roberto Arciprete della Cooperativa Biologica di Civitavecchia e con Daniela Massi e Fabio Fiorentino dell’IRBIM-CNR di Mazara del Vallo.


Lo studio – dal titolo “Commercial catches and discards composition in the central Tyrrhenian Sea: a multispecies quantitative and qualitative analysis from shallow and deep bottom trawling” – è stato pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista scientifica internazionale Mediterranean Marine Science.
 
“In questa ricerca – spiega Tiralongo – abbiamo studiato e monitorato per un anno, dal punto di vista quali-quantitativo, il pescato commerciale e lo scarto biologico della pesca a strascico di Civitavecchia nel mar Tirreno, una tipologia di pesca che possiamo suddividere in “costiera” e “profonda” in base alle principali specie target che si intendono catturare. Nel caso specifico, la pesca profonda mirava alla cattura del pregiato scampo (Nephrops norvegicus) e di poche altre specie, mentre la pesca costiera aveva come specie target principali il nasello (Merluccius merluccius), il moscardino (Eledone cirrhosa), il gambero rosa (Parapenaeus longirostris) e la triglia di fango (Mullus barbatus). Dallo studio è emerso che lo scarto biologico, ovvero tutte quelle specie che vengono rigettate in mare subito dopo essere state catturate (generalmente ormai morte) a causa di un valore commerciale nullo (perché non adatte al consumo umano o perché sottomisura del pescato commerciale), risulta superiore nella pesca costiera rispetto a quella profonda. In altre parole la pesca profonda risulta più efficiente dal punto di vista ecologico nel catturare le risorse biologiche destinate al consumo umano”.
 
“Altro dato interessante dello studio è rappresentato dalle 246 specie censite, di cui molte di queste finite nello scarto biologico.
«Possiamo certamente considerare la pesca a strascico un metodo di cattura poco selettivo e che necessita di ulteriori indagini per proporre opportune misure di gestione (ad esempio selezionando periodi di fermo biologico diversi e appropriati in base all’area o alternando la pesca in determinate aree) utili a limitarne l’impatto sulle comunità marine e gli habitat – spiega l’ittiologo catanese -. La pesca italiana è una realtà assai complessa che riguarda gli aspetti ecologici e socio-economici, visto che è la principale fonte di reddito per numerose famiglie. Occorre raggiungere un equilibrio tra sforzo di pesca e capacità del mare di rigenerarsi praticando una pesca quanto più sostenibile e responsabile possibile, permettendo al pescatore di continuare la propria attività economica e al tempo stesso impedire uno sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche. Purtroppo la stessa gestione della selettività di maglia, cioè della dimensione dell’apertura della rete, risulta assai complicata, in quanto se una rete risulta selettiva per una specie, può non esserlo per un’altra. Oppure l’allargamento eccessivo della maglia può rendere l’attività di pesca non più conveniente da parte del pescatore”.
 
Oltre alla pesca a strascico occorre verificare anche la piccola pesca artigianale con reti da posta fisse o addirittura la cosiddetta “pesca sportiva” che possono impattare in modo rilevante sulle risorse biologiche, spesso di tipo diverso rispetto a quelle sfruttate dallo strascico.
È quanto emerge da uno studio tutto catanese del 2018 dal titolo “Discards of elasmobranchs in a trammel net fishery targeting cuttlefish, Sepia officinalis Linnaeus, 1758, along the coast of Sicily (central Mediterranean Sea)” condotto da Francesco Tiralongo, Giuseppina Messina e Bianca Maria Lombardo dell’Università di Catania lungo la costa ionica siciliana e pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Regional Studies in Marine Science.
«Anche la pesca artigianale praticata con reti da posta fisse e che ha come specie target la seppia può impattare in modo rilevante le popolazioni di alcuni pesci cartilaginei – spiegano i ricercatori -. Nel caso particolare si trattava di specie che non vengono generalmente catturate con le reti a strascico, o che comunque vengono catturate in quantità decisamente minori in quanto frequentano habitat diversi rispetto a quelli battuti dallo strascico».
«Per fortuna le popolazioni di questi pesci, come la torpedine ocellata (Torpedo torpedo) e la pastinaca (Dasyatis pastinaca) sono ancora piuttosto abbondanti nei nostri mari – spiega Tiralongo -. Appare però chiaro che la pesca italiana necessiti di un approccio multidisciplinare che tenga in considerazione i diversi aspetti ecologici, sociali ed economici che ne stanno alla base e di nuove azioni politiche che tutelino le attività economiche dei pescatori e le risorse biologiche dei nostri mari. Oggi molti pescatori sostengono i ricercatori perché hanno compreso l’importanza di preservare la risorsa biologica da uno sfruttamento eccessivo sia per la tutela dell’ecosistema, sia per le loro attività».

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