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“Il sindacato è strumento di lotta e riscatto. Una cosa che mi riesce bene? Guastare la festa ai padroni”

Pubblicato il 5 Gennaio, 2022

“L’unico salotto che ho frequentato si chiama Pomigliano. Dove io tenevo sotto braccio, con il mitico Ciro, lo striscione della Fiom”. Aprile 2013. Stefano Rodotà reagisce così – in un’intervista a Repubbica Tv agli incessanti attacchi dei giornali di destra che lo ritraggono – infondatamente – come un frequentatore di “salotti romani”. Il “mitico Ciro”, citato dal “Professore”, è Ciro D’Alessio, operaio della Fiat di Pomigliano, protagonista, assieme ad altri diciotto compagni di fabbrica, di una storica vittoria operaia, su cui è impresso il “marchio” della Corte Costituzionale, contro la Fiat di Sergio Marchionne. Il “mitico” Ciro. Una storia di conflitto e di riscatto che inizia nei quartieri del centro storico di Torre Annunziata: “Ho cominciato a lavorare a nove anni, in una pasticceria. Mia mamma, come poi venni a sapere, dava di nascosto 10.000 lire al pasticcere per farmi pagare la “settimana” e tenermi così lontano dalla strada”. Una “strada” senza futuro, “lastricata” di disagio e camorra, da cui Ciro si tiene a distanza per intraprendere invece quella della “fatica”, del lavoro: per anni fa il barista, l’imbianchino, il pescivendolo, “spacchetta le seppie al porto, alle cinque di mattina”. Poco più che ventenne, con un diploma in tasca, “che ci ho messo dieci anni a prenderlo”, arriva la fabbrica. Ciro varca per la prima volta il cancello dello stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano da “semplice operaio del reparto montaggio…”

Stefano Rodotà e Ciro D’Alessio

In fabbrica, Ciro si “scontra” subito con la “prepotenza del padrone”. Si iscrive alla Fiom, “perché il sindacato è lo strumento con cui si possono agire il conflitto e la lotta, collettivamente, lo strumento del riscatto”. E l’occasione per la lotta arriva presto, quando Marchionne annuncia la chiusura dello stabilimento. La reazione operaia è decisa: scattano scioperi, manifestazioni, delegazioni di lavoratori arrivano da ogni parte d’Italia: “Siamo tutti Pomigliano”, è lo slogan. Pomigliano diventa il simbolo dell’arroganza “padronale” contro un Sud “piegato” dal ricatto occupazionale. Una battaglia impari che però si conclude con un passo indietro della Fiat. Lo stabilimento rimane, a Pomigliano viene assegnata la produzione della Panda ma – sono le condizioni del management – occorre uscire dalla “protezione” del contratto nazionale e siglare un contratto aziendale, chiamato Ccsl, che vale solo per la Fiat, e che taglia salari e diritti, compreso quello allo sciopero. Ma non è tutto, Marchionne non vuole vincere ma stravincere e detta un’ultima condizione: indire un referendum sull’accordo da far votare ai lavoratori. E nel caso di un voto sfavorevole la Fiat va via.

La Fiom dice no, contesta il referendum, lo definisce “un ricatto”, uno scambio inaccettabile tra lavoro e diritti. Diciannove delegati, tra cui Ciro, ricorrono, impugnano, si battono contro ciò che definiscono “una pistola puntata alla tempia”. Ma il referendum si fa e passa il sì, di poco, soprattutto tra gli impiegati, “mentre il 40% vota no e, tra gli operai, il no ottiene la maggioranza”, nota Ciro. Un risultato che imbarazza e indispone l’azienda, “tanto che il primo commento di Marchionne – ricorda D’Alessio – è arrivato dopo quindici giorni. Forse, si aspettava un plebiscito che non c’è stato”. Ma adesso, incassato il “colpo”, c’era da “sbarazzarsi” dei diciannove “guastafeste” e della Fiom. Nulla si rivelerà più complicato. La Fiat mette in atto un primo tentativo: crea un’azienda nuova, la Fip (Fabbrica Italia Pomigliano) e comincia a “travasarvi” i lavoratori. Tutti, ad eccezione – ma del tutto “casualmente” – degli iscritti Fiom. Tanto casualmente che, nelle carte della sentenza con cui il giudice “azzoppa” i propositi aziendali, è riportato testualmente: “Era più facile vincere al Superenalotto, che per un iscritto Fiom passare alla Fip”.

Ciro è il primo dei diciannove “ricorrenti” ad essere convocato, dopo l’intervento del tribunale, per sottoscrivere il passaggio alla Fip. Scortato (vedi foto sopra) dai vigilantes – “ma mi seguivano sempre, quando facevo attività sindacale in fabbrica” – D’Alessio arriva in una stanza in cui lo attende un gruppo di manager in giacca e cravatta. C’è anche l’avvocato dell’azienda venuto da Torino, ha l’aria di uno che ha fretta di chiudere “l’affare”, a differenza di Ciro, che invece temporeggia per vederci chiaro: “Mi sottopone un contratto di tre pagine, lo leggo al telefono al nostro legale, al segretario della Fiom e ai miei colleghi, e dopo aver avuto il via libera lo firmo”. Nei ricordi dell’operaio, è impresso il momento in cui l’avvocato gli passa la penna con logo Fiat per firmare: “Dottò, se permette, mi sono portato la mia”, declina garbatamente Ciro, tirando fuori una penna con logo Fiom. D’Alessio viene “confinato” in una postazione isolata, lontana da tutti, “recintata” con delle catene da cui pende il cartello “vietato il transito”: “non passavano nemmeno i muletti”, ricorda Ciro. La foto.

Una mattina, in postazione “confino”, squilla il cellulare: “Ciao, sono Maurizio”. E’ Maurizio Landini, il segretario nazionale della Fiom:Mi chiede di andare a Reggio Emilia”, racconta Ciro. “Vabbè, penso lì sul momento, prendo due cose e vado”. E invece no, a Reggio Emilia, “una grande palestra sindacale”, Ciro ci rimane per anni, “distaccato” dalla fabbrica. A Reggio Emilia, Ciro va ad imparare il “mestiere” della contrattazione, “perché il conflitto già lo conoscevo”. Reggio Emilia, terra “di compagni e compagne straordinarie e di lotte indimenticabili”. Come quella dell’Unigreen, 30 dipendenti, 23 giorni di occupazione: “Ti racconto un episodio di solidarietà che mi ha colpito: una sera è passata a trovarci nella fabbrica occupata una signora con un bambino. Ha tirato fuori una torta e ci ha chiesto di festeggiare assieme il compleanno del figlio”. Le cita una ad una, Ciro, le vertenze e le le aziende, come i vividi fotogrammi di una pellicola che gli è “rimasta nel cuore”: La Cobo, l’Alubel, la Ognibene. “E come non ricordare la Vertex“, aggiunge Ciro, “ancora oggi continuo a sentirmi con tutti, è rimasto un bel rapporto, ci scambiamo gli auguri per le feste. Sì, Reggio Emilia mi è rimasta nel cuore”.

E ancora oggi, dopo tanti anni, ancora oggi che è segretario della Fiom di Bari – dove è stato inviato per rilanciare la categoria – Ciro non si stanca di ripetere: “Reggio Emilia è stata per me una grande scuola”. Lì a Bari, D’Alessio, si è ritrovato in mano, da subito, qualche “patata bollente”. Intanto la Bosch, storico insediamento operaio, dove oggi 620 lavoratori rischiano il posto. Poi la Brsi, un’azienda di assistenza software che annovera tra i suoi committenti persino il Miur e Ferrero. Una storia di appalti e “scatole vuote”, che Ciro racconta come un thriller di John Grisham. “Guarda, te la racconto così che sennò ti viene il mal di testa. Sembra – chiosa il sindacalista – la classica vicenda di appalti e scatole vuote, in realtà è anche peggio: è un’operazione “fraudolenta”. La Brsi – continua Ciro – rileva un ramo d’azienda di una società più grande, prendendo le commesse e un “bonus” da tredici milioni di euro. Dopodiché ci convoca per dirci che il costo del lavoro è troppo alto, che i salari vanno tagliati del 30%, che l’azienda non è competitiva. Che è come se io, operaio della catena di montaggio, mi comprassi una macchina 4000 di cilindrata e mi accorgessi poi di non poterla mantenere”. La Brsi, nella “ricostruzione” del segretario, decide di fondersi con un’altra azienda, ancora più piccola, la Rsh, nata poco tempo fa, stando alle visure, con 10.000 euro di capitale sociale e sede a Catania: “Nessuno a Catania conosce questa società, che si trova, da quanto ne sappiamo, in una specie di emporio cinese dalle parti di Misterbianco”. La Brsi chiede ai lavoratori, 72 donne e 19 uomini, di trasferirsi a Catania entro gennaio. Alternativa? Il licenziamento. “Ti rendi conto? Dall’oggi al domani 97 lavoratori, tra cui 72 donne, ripeto 72 donne, dovrebbero lasciare la famiglia e tutto e trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza. E’ un licenziamento mascherato, noi abbiamo impugnato questa “strana” fusione, li abbiamo “denunciati” per comportamento antisindacale e il giudice ci ha dato ragione e ha sospeso il trasferimento”. Una prima vittoria, una boccata d’ossigeno, accolta con soddisfazione dai dipendenti: “Gliela stiamo facendo vedere nera a questi, mi riesce bene guastare la festa ai padroni”, gioisce Ciro.

Alla Brsi, Ciro conosce Roberta Gargiulo, una lavoratrice, una giovane delegata: “E brava, preparata, tenace, e pur non avendo mai fatto sindacato prima, si è caricata sulle spalle questa difficile vertenza. E’ di loro, dei delegati – incalza il sindacalista – che occorre parlare”. Si appassiona, Ciro, quando parla dei delegati: “Li ammiro, sono quelli che ci mettono la faccia nei luoghi di lavoro, quelli che rischiano il posto. Sono il cuore e le gambe del sindacato”. Quel sindacato, la Fiom, la Cgil, che per lui, giovane di Torre Annunziata, poi operaio, poi delegato, e infine segretario, ha rappresentato “il riscatto”. E anche qui, Ciro, fa nomi. Come quello di Michele De Palma, “un vero metalmeccanico, una spanna sopra – dice – ma non scriverlo sennò si monta la testa”. Come quello di Gianni Rinaldini, un pezzo di storia del sindacato italiano, “Il Professore, uno dei miei maestri”. O come quello di Francesca Re David, la segretaria delle tute blu della Cgil, “una grande dirigente, la prima donna segretaria della Fiom, la segretaria che ha firmato il contratto”. O come, infine, quello di Maurizio Landini, il segretario: “Uno che crede in ciò che dice, che sente davvero il valore dei delegati, uno, per dire, che a me, ancora giovane operaio, lui che era il segretario, aveva l’umiltà di chiedere; ‘ma tu che ne pensi? Tu che faresti?’ Ecco perché per Landini butterei le mani sul fuoco”. Non è culto della personalità, spiega Ciro, ma adesione sincera ad una visione comune del sindacato, del conflitto, della contrattazione. “Sì ok, Ciro, ma Landini avrà pure qualche difetto…”, lo “provochiamo” prima di congedarci. “Come no – scherza il “guastafeste” dei padroni, con piglio partenopeo – il taglio dei capelli. Ogni tanto”.

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