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Pogues

Pogues: addio al leader della band che Sinead O’Connor definiva “Un angelo sempre vicino alla fine” (VIDEO)

Pubblicato il 30 Novembre 2023

È morto all’età di 65 anni , cantante del gruppo folk-punk dei Pogues. Lo rendono noto i media irlandesi.

Nato in Gran Bretagna ma di origine irlandese, divenne celebre negli anni Ottanta, oltre che per la sua musica, per lo stile di vita sregolato, in particolare per l’abuso di alcol, ma anche di eroina. Il suo brano più famoso è la canzone natalizia “Fairytale of New York”, cantata insieme a Kirsty McColl.

Non fatevi fregare dalla più bella canzona natalizia di sempre, che in queste ore i social stanno proponendo a tutto spiano. E neppure dalle foto che lo ritraggono perennemente alterato, e dalla sua leggenda di uomo dedito a qualunque tipo di eccesso. Shane MacGowan è stato molto ma molto più di Fairytale of New York e di “un angelo sempre vicino alla fine”, come lo definì la sua amica Sinead O’ Connor.

La sua scomparsa, avvenuta oggi, non sorprende, dopo che 65 anni etilici e una vita sempre al limite avevano lasciato su di lui un segno irredimibile. L’anno scorso, il Guardian era andato a intervistarlo, e il resoconto di quel colloquio biascicato spezzava il cuore a chi lo amava tanto.

Chiedi chi erano i suoi Pogues. Bella domanda. È difficile persino spiegarlo, a chi non c’era. “Noi volevamo colpire il pubblico nel cuore e nelle viscere, volevamo farli ridere, piangere, cantare”. Chi ha avuto la fortuna di vivere con loro ti risponderà che i testi di Shane, cantati con la sua voce biascicata e gonfia di dolore, erano vera poesia. Era letteratura, che metteva insieme Joyce, Brendan Behan, Yeats, e apriva le porte su una certa idea di Irlanda, sconfitta e orgogliosa, mai doma, mischiando speranza, paura e sogni di ogni emigrato o di chi si sentiva tale. Ma non solo questo. Negli anni Ottanta la Poguesìe di Shane MacGowan ti diceva che andava bene unire rabbia e amore, che si poteva essere punk ognuno a modo suo, ma anche romantici. Che era ok sentirsi fuori posto nell’Inghilterra di Margaret Thatcher così come nella Milano da bere, espatriati ognuno a modo suo.

Nelle sue canzoni c’erano in egual misura furore ed empatia, voglia di ribellarsi e tenerezza, declinate in una miscela musicale irripetibile, lasciate perdere gli epigoni recenti del folk-rock, sono acqua fresca al confronto. Lasciate stare anche la canzone di Natale, tanto ogni anno la tirano fuori. Ascoltate A pair of brown eyes, che mischia una sbronza alla brezza di primavera alla lotta di classe e si fa, ancora una volta, poesia, oppure Lullaby of London, o The broad majestic Shannon con il suo eco di rimpianto per l’infanzia perduta, ma non importa, “For it’s stupid to laugh and it’s useless to bawl about a Rusty tin can and an old hurley ball”.

Oppure Rainy night in Soho, che è semplicemente una delle più belle canzoni d’amore mai scritte. “I’m not singing for the future/I’m not dreaming of the past/I’m not talking of the first times/I never think about the last”. Forse in pochi si ricordavano di lui, magari qualcuno pensava che se fosse già andato via molto tempo fa. Ma oggi è morto un grandissimo, da riscoprire, con la musica e con le sue parole. Quanto ti abbiamo amato, Shane. Codladh samh, dormi bene.