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Talent Scout di autori: Tiziano Ticciati

Pubblicato il 27 Marzo, 2021

Di Gordiano Lupi

Lo scrittore che vi presento oggi è Tiziano Ticciati, nato a Piombino 28 anni fa. Lascio che si presenti da solo, perché ha scritto una biografia originale e divertente. 

Salve a tutti, mi chiamo Tiziano e sono un papà di ventotto anni. Anche se in verità avrei tanto voluto chiamarmi diversamente. Che ne so, tipo Tolkien, Doyle, Poe, Stoker, o magari Lovecraft. Posso dirvi una cosa che però ho in comune con questi straordinari signori, a parte non il nome ovviamente, e cioè l’amore per la scrittura e lo spasmodico bisogno di creare mondi e situazioni al di fuori del nostro. Non starò a dire bugie del tipo, ho sempre scritto, sin da piccolo sentivo che era la mia vocazione, né che sono laureato o che lavoro in un ambito simile come il giornalismo, bla bla bla… No. Se devo essere sincero sono un ragazzo comune in possesso di terza media, che ha sempre svolto lavori umili e di fatica. E mi sono avvicinato alla scrittura soltanto un due, tre anni fa, per puro caso. Fui vittima di un brutto infortunio alla schiena, e per non morire di depressione dal non poter uscire di casa, sotto consiglio della mia compagna, mi gettai completamente su carta e penna. E da lì è nata una vera e propria ossessione. Buttai giù il mio primo romanzo, che si materializzò inaspettatamente, in poco meno di tre mesi. Finito quello ho continuato a scrivere, ancora, ancora e ancora. Il mio cervello è un turbinio di idee che vi giuro mi fanno svegliare nel cuore della notte e mi costringono a mettere per scritto quei pensieri che altrimenti mi toglierebbero il sonno. Scrivo qualsiasi cosa: poesie, racconti brevi, romanzi veri e propri, spaziando in tutti i generi (almeno ci provo), e mi rendo conto che il potenziale della mente umana è infinito. Io ringrazio con tutto il cuore la scrittura, perché essa inconsapevolmente mi ha regalato un sistema per liberare la mia mente quando è più piena, che sia di problemi o pensieri di qualunque genere. Ringrazio chi e cosa mi circonda, dalla mia compagna a mio figlio, dalla mia città Piombino, a tutto il mondo, perché mi regalano spunti meravigliosi per creare inestimabili luoghi e personaggi che animano le mie pennellate su fogli a quadretti (le righe non le sopporto). Scrivere non è un dono, o una vocazione o altro. Scrivere per me è dare vita a ciò che con la voce non si può esprimere, come i sogni. Scrivere per me è sinonimo di amore. Io, Tiziano Ticciati, so che non sarò mai all’altezza dei nomi che ho citato in precedenza, ma so che per chi mi sta intorno sono come un cantastorie. Un qualcuno che ha avuto la fortuna di poterli allietare con parole che rechino la loro fantasia verso posti che di normale non si prende in considerazione. Quindi sì, sono uno scrittore, non il migliore, non il peggiore, ma di sicuro uno che ama farlo. E che continuerà a farlo, indipendentemente da tutto.
Grazie di cuore a chi crede in me.

Veniamo al racconto che ha scritto per noi, pura narrativa di genere, dal ritmo incalzante, scuola Edgar Allan Poe, uno dei suoi scrittori di riferimento. La storia nasce dal classico espediente narrativo del manoscritto ritrovato, in questo caso uno scritto di un uomo che porta lo stesso nome di un personaggio inventato da Lovecraft, il solitario di Providence, rinvenuto dal figlio, che decide di darlo alle stampe. Lo stile di Ticciati è onirico e visionario, molto vicino a quello dei suoi Maestri, l’idea di far diventare Piombino una terra fantastica estrapolata dai miti di Cthulhu è interessante oltre che originale, la parte descrittiva della storia è sognante e fiabesca. Tiziano non fa mistero di amare il fantasy, l’horror e il mistero, dimostra di padroneggiare a dovere la materia e di saper imbastire trame che catturano l’attenzione del lettore e lo spingono a immergersi nella lettura. Il suo primo lavoro edito è Il Loto Nero, progetto fantasy del quale è uscito solo il primo volume: Le storie di Shantrey. Molto ribolle nei cassetti di Tiziano, anche una raccolta di racconti del mistero ambientati nel nostro territorio, che – da piccolo autore che ha fatto cose simili in passato – mi incuriosisce molto. Ticciati è uno scrittore naturale, dalla penna incontenibile, capace di scrivere sugli argomenti più disparati, al punto che – facendo violenza alla passione per il fantastico – è riuscito a comporre un racconto classico di taglio romantico che gli ha permesso di essere inserito tra gli autori dell’antologia Piombino in musica, di prossima uscita per Il Foglio Letterario. Vi lascio al racconto. (Gordiano Lupi)

In memoria di H.P.L.
di Tiziano Ticciati

Mi presento, il mio nome è J.R. Carter II. Questo breve testo che mi accingo a mostrarvi, è un estratto dell’ultima di molteplici note appuntate da mio padre. Padre adorato che è venuto a mancare sei mesi or sono, scomparso durante una sua visita in Italia. Di lui non si sa nulla circa il suo destino. 

Rapito? Morto? Fuggito? O chissà solo Dio sa cos’altro.

Di lui mi sono stati recapitati soltanto la valigia e gli oggetti personali in essa contenuti, rinvenuti nell’appartamento dove alloggiava, il quale sembrava esser stato vittima di un atto di depredo o di un sequestro eseguito con furia animale. A parte i suoi indumenti, nel bagaglio ho trovato unicamente un gruppo di fogli. Annotazioni simili a un diario, fatte a mano, come lui usava fare sempre, contenenti deliri e obbrobriose descrizioni, che quasi mi vergogno a riportare, circa sue dirette esperienze con fenomeni inverosimili per persone con un minimo di senso del decoro mentale. 

Eppure, in sua memoria, ho corretto e riunito queste annotazioni facendole passare per il suo ultimo lavoro incompiuto, che ovviamente inviterò che vada in stampa, data la fama che mio padre aveva, e che intitolerò: In memoria di H.P.L.

La raccolta è molto vasta e particolareggiata, ma qui, per oggi, ve ne riporterò solamente una versione ristretta di quella che, io deduco, sia stata la sua ultima volta con una penna tra le dita.

Avviso i lettori che, ciò che stanno per leggere, va oltre ogni umana comprensione, e che, pensiate quello che volete, ma mio padre non era un folle.

J.R. Carter II

La vera R’lyeh

Non ho più molto tempo… stanno venendo a prendermi… lo so, lo sento. Cercherò di essere il più sintetico e chiaro possibile, senza cercare di essere ritenuto un folle. Io mi chiamo Jonathan Carter, anche se il mio nome completo di battesimo in realtà è Jonathan “Randolph” Carter, e vivo nientepopodimeno che a Salem nel Massachusetts. Marito non troppo perfetto, e padre amorevole di un figlio modello. 

Sì, esatto, so che cosa pensate. Io mi chiamo proprio come il noto personaggio dei romanzi di Lovecraft, e sì, vivo proprio in quella città tanto famosa per i falò. Il mio secondo nome non è stato un caso sapete, ma una scelta ben ponderata. Mio padre, come suo padre, e suo padre ancora prima di lui, erano quelli che comunemente si definiscono dei “Lovecraftiani”, ossia studiosi accaniti del brillante “Solitario di Providence”. Non posso dilungarmi dicendo che i miei avi erano veramente ossessionati da Lovecraft, sarebbe troppo riduttivo. E la loro ossessione è stata talmente infettiva nei miei confronti che ha finito per contagiare anche me, un uomo divenuto professore di astrofisica, occultismo, mitologia, e altre cose inutili per alcuni che necessitano di anni e anni di studi. Nonché destinatario dell’ambito premio Pulitzer per la letteratura per il mio trattato intitolato “Lovecraft, il vero Grande Antico”. Un mio manoscritto-trattato, che ha seriamente rivaleggiato con la trilogia di S.T. Joshi dal nome “Io sono Providence”.  Comunque sto divagando… La mia abitudine a non porre limiti alla penna mi sta facendo dimenticare che ho i minuti contati. Vi dirò che tutto è cominciato quando un mio carissimo amico italiano di nome Franco Maneggini, illustre professore di storia all’università di Pisa, Lovecraftiano per hobby, mi ha contattato per darmi una rivelazione sconvolgente, ossia che era entrato accidentalmente in possesso di una breve lettera segreta e, mai spedita, allegata a una cartolina del Museo Civico Correr di Venezia, il cui mittente era un certo Grandpa Theo. Ovviamente, essendo il più illustre tra i Lovecraftiani, sapevo che quel nome non era altro che uno pseudonimo di H.P. Lovecraft. Comunque la missiva era stata indirizzata ad Alfred Gampin, suo amico intimo trasferitosi in un luogo chiamato Montecatini, in Italia. Franco Maneggini l’aveva rinvenuta proprio a Venezia, durante un convegno sulla storia di Roma, in un piccolo albergo nei pressi del museo, trovandola per caso tra delle comuni scartoffie, mai catalogate, nella misera e poco rifornita biblioteca che il titolare aveva nel seminterrato. Naturalmente, voi capirete che a tal notizia mi feci inviare subito una foto dello scritto in questione. Una volta esaminato, e quindi autenticato, al mio cervello non detti nemmeno il tempo di fare due più due, che già prenotai un volo per l’Italia, più precisamente per la cittadina che Lovecraft diceva di aver segretamente visitato, e in cui aveva avuto la certezza che le sue invenzioni letterarie lì fossero reali. Una sorta di epicentro di quel potere oscuro, deplorevole e cosmico di cui lui narrava. Una località lasciata volutamente senza nome, ma citata come: “Terrazza là dove l’occhio umano si affaccia su quella che un tempo fu breve regno per Napoleone”. Ovviamente, per tutto quanto il viaggio in aereo, decollato la sera dopo da New York, mi distrussi il cervello per venire a galla di questo rompicapo. Consultai Internet, documentandomi su Bonaparte, e su questo suo breve imperare in Italia su quella che a primo impatto dedussi che fosse un’isola. E fu lì, che scovai il nome della città non nominata da Lovecraft. Piombino, una piccola località sulla costa tirrenica. Una vera e propria terrazza sul Mar Tirreno, dalla cui piazza col tempo favorevole, si possono notare le isole principali dell’arcipelago che lo circondano, tra cui il breve impero di Napoleone. Una crosta di terra chiamata l’Isola d’Elba. Una città che, stando a quanto riportava Internet, negli ultimi tempi, aveva subìto un drastico cambio di rotta. Mutandosi in un luogo chiuso fuori dal resto della regione, della nazione. Muto e schivo con gli stranieri. E non solo Piombino, ma anche le relative zone limitrofe.

Comunque dopo quasi dieci interminabili ore di volo atterrai a Roma, da lì, un treno per il nord, fino ad arrivare a Campiglia Marittima, quindi un bus per la mia destinazione, Piombino. Appena giunto alla meta, non potei astenermi dall’ammirare lacittà, d’un tratto pensai a che cosa potesse aver provato Lovecraft nel trovarsi lì nei tempi remoti in cui vi si recò. Un luogo che trasuda un passato glorioso solcato dal popolo antico e misterioso degli Etruschi. Possessore di notevoli opere architettoniche, dalle stupende chiese, al robusto castello, arroccato in alto in posizione dominante. Un silente custode della città che controlla gli arrivi dal mare. Ma traboccante anche di ineluttabili tracce di antiche, e presenti, presenze misteriche. In ogni caso, dopo aver affittato un appartamentino nella zona che più mi interessava. Un piccolo bilocale spartano in viale del Popolo, con la vista che dava sul punto della città che più mi premeva, piazza Bovio. Adesso dico che, durante la mia sosta, durata poco meno di una dozzina di giorni, durante i quali ho vissuto cose che in nome di Dio ancora non riesco a spiegarmi, ma di cui ho annotato tutto su altri fogli, giunse il giorno fatidico, oggi, quello in cui vi sto scrivendo.

Non avevo passato giorno senza rileggere almeno una volta la lettera di Lovecraft. Lettera dove il Solitario di Providence parlava di visioni. Visioni deliranti e terrificanti che gli erano iniziate appena posati gli occhi su piazza Bovio. Immagini del faro che si deformava fino a prendere la forma di un imponente individuo che dissimulava il suo aspetto sotto di un vasto mantello giallo, proprio come Hastur, il “Re in giallo” di Robert Chambers. Il quale poi si voltava verso il mare e mormorava con una voce simile ad un tuono le famose parole: «Ph’nglui mglw’nafh CthulhuR’lyeh wgah’nagl fhtagn».

Non posso negare che anch’io, da quando mi sono affacciato per la prima volta dalla finestra al crepuscolo del mio primo giorno, non abbia iniziato ad avere nella mia mente, così, come materializzate dal nulla, delle immagini simili a quelle descritte da Lovecraft. Ma sapete com’è, no? Potevo soltanto esser rimasto condizionato da quelle visionarie parole, o magari l’immaginazione del clamoroso successo e prestigio che avrei ottenuto divulgando quel documento inedito, mi aveva dato alla testa. Ma non era così.

Sta di fatto che oggi pomeriggio, dopo di un trascorso che ometterò in queste righe, mentre mi accingevo a consumare un buon caffè fatto con la moka, mi appisolai sul divano, forse troppo distrutto per la maratona forzata di quelle ultime ore a cui avevo costretto le mie stanche membra. Credo di aver dormito poco rispetto alle ore di cui avrei avuto bisogno, perché quando riaprii gli occhi erano le 23:15. E non è tanto questo ciò che è degno di nota, ma ciò che ho sognato. Un sogno che prima di allora non avevo mai fatto così nitidamente. Ho sentito una voce grottesca e graffiante che mi chiamava prima dolcemente, poi sempre più selvaggiamente. Poi c’ero io, che mi avventuravo giù per le scale di viale del Popolo, con la strana sensazione di esser spiato da ombre dal sapore pirandelliano, che si rimestavano nell’oscurità delle viuzze come oscillanti movenze tentacolari, osservandomi smaniosamente. Una paura nauseante mi avvolse come alghe vive e fameliche che volevano attrarmi nei profondi recessi del mare che sentivo sbatacchiare furiosamente sulla scogliera della piazza. Una puzza di pesce e putredine permeava l’aria appiccicandosi sui miei abiti come colla, mentre giungevo in fondo alle scale di fronte a quello che è conosciuto come Palazzo Appiani. Non credevo a ciò che stavo vivendo, era come essere ad Innsmouth, intrappolato in un sogno delirante in pieno stile Lovecraft. Strascicando le gambe, anch’esse riluttanti a procedere, ma sospinte da quel richiamo che mai si era quietato, entrai nella magnifica piazza. Là vidi il cielo che mutava. Le nuvole si smembravano e riunivano creando un vorticoso ammasso ondeggiante dai riflessi violacei, cremisi e verdeggianti. La marea si gonfiava a tal punto che gli schizzi giungevano sin sopra la piazza, schiaffeggiandomi con insensata superbia. Man mano che mi avvicinavo al faro, notai che la voce aumentava, e che esso, il faro, stava subendo quel processo di mutazione citato da Lovecraft. Adesso ero lì, inginocchiato, tremante, incredulo, terrorizzato, stomacato, invaso da un’eccitazione che mi stava strangolando lentamente. Hastur l’Innominabile ora torreggiava su di me, fissandomi dal buio cappuccio, ed intonando la litania vomitevole: «Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’naglfhtagn». 

Poi sollevò un braccio e, come se la materia obbedisse ai suoi voleri, la piazza e la città alle mie spalle si disfecero gradualmente trasformandosi in un primitivo e geometricamente folle ammasso architettonico che nessuno avrebbe mai potuto concepire o erigere.

Riconobbi però dei dettagli significativi, che mi suggerirono ciò che stavo osservando. Piazza Bovio, Piombino stessa, e chissà quanto ancora più in là, non erano altro che un frammento della perduta città di R’lyeh, celata sotto falso aspetto, in attesa che il Grande Cthulhu si risvegliasse per regnare sull’umanità.
Un conato di vomito mi devastò quando mi voltai di nuovo verso di Hastur e dietro di lui vidi che L’isola d’Elba non vi era più, ma al suo posto invece c’era una struttura ciclopica dall’ingresso spalancato. E fu proprio da lì, che vidi emergere dalle acque ribollenti che fuori ne fluivano, il Sacerdote dei Grandi Antichi. Il Grande Cthulhu. 

Egli mi fissava coi suoi vacui occhi immersi in quel viscido e verde uovo cosmico quale era il suo corpo. E nella mia testa risuonò il suo richiamo: “Jonathan Randolph Carter, tu sei il nuovo emissario su questa terra. Come Abdul e Howard prima di te, tu mi servirai fedelmente, o ti farò scoprire l’orrore cosmico che si cela negli eoni più terrificanti dello spazio”. Allungò una mano per afferrarmi e farmi suo quando gli gridai un “Noooo!” lacerato dall’isteria. E lì mi sono svegliato, con la sensazione di avere in petto una mitragliatrice col grilletto inceppato, incapace di smettere di eruttare colpi.

Come ho detto, erano le 23:15, adesso sono mezzanotte e quasi mezza. Mi sono messo subito a scrivere queste parole, smosso dal timore e dal bisogno di comunicarle. Sento che non ho più tempo. La luna fuori è buia, e dietro di lei in lontananza spiccano ripugnanti contorcimenti blasfemi senza forma apparente che potrebbero essere i riflessi cosmici di Azathot, mentre le stelle brillano incandescenti in un allineamento mai visto prima, e il cielo sta turbinando in un ruggito di tuoni in avvicinamento, e la marea ulula invasata. Sento presenze che si muovono sul tetto, dentro i muri, per strada… Corro a mettere queste poche righe nella mia valigia insieme agli altri appunti. Spero che quando non mi troveranno più qualcuno le possa rinvenire e consegnarle a mio figlio. Il quale, capendo che cosa mi è accaduto, potrà fare qualcosa. Anche se dubito che potrà scovarmi nei recessi purulenti e da incubo a cui sarò costretto a marcire e servire. 

Ma sappiate che Piombino è parte di R’lyeh! O mio dio… non posso crederci!
Eccoli, sento che stanno cercando di aprire la porta, la puzza di pesce e putredine è arrivata ed è insopportabile. Vi dico addio Marianne e Johnny, e fate che queste mie parole non vadano vane. 

E io ricordo a voi che vivete inconsciamente a Piombino, o nei suoi dintorni, o in tutto il mondo, che: «Nella sua dimora a R’lyehil morto Cthulhu attende sognando».

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