Pastificio Amato, l’erede schiacciato dalla caduta dell’impero : “Ho fatto pure l’operatore di call center”

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“Ho fatto di tutto, pure l’operatore di call center e l’autotrasportatore. Ora vorrei che qualcuno mi desse fiducia”.

Così Giuseppe Amato.

Rampollo della dynasty di industriali salernitani della pasta caduti rovinosamente in disgrazia, a 48 anni ricomincia da zero. Ha vissuto “felice e contento” fino a quel drammatico 20 luglio 2011 quando il Tribunale di Salerno dichiarò il fallimento della società Antonio Amato & C. Molini e Pastifici spa, bocciando così l’ipotesi di concordato preventivo, così come ricostruisce il Corriere.

Fino ad allora aveva una vita agiata, uno status sociale che gli conferiva riconoscibilità e rispetto. 

Poi per lui è stata una vera e propria discesa agli inferi: la condanna “patteggiata” per reati fallimentari, gli arresti domiciliari, il carcere (27 mesi di cui 21 continui), l’affidamento in prova ai servizi sociali e poi, pagato il conto con la giustizia, l’inizio di una seconda vita completamente agli antipodi rispetto a quella precedente. Oggi, a Salerno, sembra il fantasma di quel che è stato.

“Il Capodanno lo trascorrerò prima con i miei figli e poi, dopo la mezzanotte, a casa di amici, sempre gli stessi, che mi sopportano e supportano da 30 anni – racconta – con Domenico e Ludovica (i figli, ndr) ho sempre parlato di tutto, anche delle mie vicende giudiziarie, poverini, così giovani si sono dovuti sobbarcare le mie colpe, cose onerose che fortunatamente hanno saputo gestire e metabolizzare. Non ho mai fatto mancare loro stimoli e presenze al di là della mia discontinuità economica. Domenico, tra l’altro, proprio oggi diventa maggiorenne (e qui non riesce a trattenere le lacrime), gli abbiamo organizzato una festa e un video a sorpresa che ripercorre tutta la sua vita. Ludovica invece ha 16 anni, sono entrambi bravi ragazzi, vanno bene a scuola e da grandi vogliono fare i medici”.

“Prima del fallimento il mio piacere più grande in questo periodo era stare in famiglia. D’estate invece andavamo a Casalvelino, a casa della mia ex moglie. Ero socio di minoranza dell’azienda e condirettore generale senza potere di firma – continua – Ero il più giovane ed era giusto che fossi quello che lavorasse di più: entravo in azienda alle 8.30 e uscivo alle 19.30. Viaggiavo molto, facevo 150 mila chilometri all’anno. Ci credevo anche se guadagnavo meno degli altri e non mi sono goduto i figli piccoli. Ricevevo tutti anche se non ero io a decidere. Questo è il periodo che è coinciso con la separazione da mia moglie. Mi sono impegnato assai, forse troppo. Mio nonno fu mal consigliato. Avrebbe dovuto ammettere che non aveva compreso che la realtà era cambiata e che non aveva delegato quanto avrebbe dovuto. Ha voluto comandare lui fino alla fine, era fatto così.

“Il tracollo del pastificio? Il problema è che al vertice non c’è mai stato un potere decisionale chiaro: quando potevamo avviare collaborazioni importanti con grandi gruppi stranieri mio nonno non ha voluto, dovevamo fare un piano industriale per tre anni e ce ne mettevamo otto. Alla fine siamo stati impreparati a gestire il gap tecnologico e generazionale. Ho fatto il front-man di una band con canzoni che non avevo scritto io. Però quando ho gestito il molino il fatturato è passato dai 400 milioni di lire del 1999 ai 56 milioni di euro del 2011. Giusto che si paghino gli errori, peccato che nessuno ti dia mai medaglie per i meriti”, rivela.

“Ero ai domiciliari e mi sentivo in gabbia – ammette riferendosi al periodo della condanna, durante la quale ebbe problemi di buona condotta – Allora commisi alcune intemperanze, come uscire per andare ad abbracciare i miei figli pensando di poterla fare franca. Invece fui scoperto e disposero per me la misura di aggravamento, in carcere. Sbagliai e pagai, le regole vanno rispettate. Pur soffrendo, il carcere l’ho vissuto come un momento, non necessario e non augurabile, di crescita e di condivisione. In cella ognuno ha un ruolo, a seconda delle proprie attitudini, ci si dà una mano l’uno con l’altro. Noi eravamo in sei, io leggevo e scrivevo, anche le lettere ai familiari degli altri reclusi che così mi davano grande fiducia”.

“Come mi giudico? Chiunque cada e si faccia male ha bisogno di un tempo perché le ferite si sanino. Io fino ad oggi non mi sono sentito pronto a cimentarmi in nuove attività professionali. Anche perché ho avuto problemi di salute, una malattia della pelle di origine psicosomatica. E ho preferito giocare a giochi che non mi piacevano, adeguando qualsiasi cosa al mio stato d’animo per necessità. Ho provato a fare di tutto, dal rivenditore al dettaglio di generi alimentari e non al rivenditore di prodotti sanitari, mi sono occupato di prodotti finanziari ma anche di prodotti di salvaguardia di prodotti finanziari. Ho fatto l’autotrasportatore e persino l’operatore telefonico commerciale”.

“Ora però che i fantasmi del passato restano dentro di me solo come memoria e come monito, sono pronto ad affrontare un impegno costante e quotidiano che mi aiuti ad esprimere me stesso. Sento di poter dare un contributo mettendo a disposizione la mia esperienza, le mie conoscenze, la mia sensibilità e la mia capacità di resistenza. Mi sono proposto per una serie di lavori, speriamo bene. Per il 2023 vorrei che uno andasse in porto in modo da poter riconquistare la mia autostima”, confessa.

“No, non percepisco il reddito di cittadinanza, perché ho la mia partita Iva. Mi auguro di non percepirlo mai, sono ancora ottimista. Né voglio che qualcuno mi prenda a lavorare perché prova pena per me”.

“Il gozzo che ho dovuto vendere e che mi dava la dimensione del viaggio che tanto amo – è quel che gli manca del suo passato da benestante – Quando lo prendevo, facevo due turni, la mattina con moglie e figli e il pomeriggio con gli amici. Giornate indimenticabili. Mi mancano tanto anche la Vespa di mio padre, che ho venduto, e i capelli di quand’ero ricco. Per me la felicità non è legata al possesso ma alla libertà. E agli affetti. Ho imparato ad essere felice del poco che ho, che non è mai poco. E anche quando una giornata è storta trovo sempre un motivo, che sia un raggio di sole o una bella donna che ti viene incontro, per cui valga la pena di viverla fino in fondo. Adesso spero di avere un futuro”.

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Redazione Nazionale

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