Pubblicato il 3 Giugno 2024
Si chiude, forse definitivamente, il cerchio del caso Eluana Englaro, la ragazza che passò 17 anni in stato vegetativo dopo un gravissimo incidente stradale. A distanza di 15 anni dalla sua morte Carlo Lucchina, ex direttore generale della Sanità della Lombardia, è stato condannato a pagare all’erario 175.000 euro poiché aveva impedito che fosse interrotto il trattamento che manteneva in stato vegetativo Eluana per una “concezione personale ed etica del diritto alla salute”. 175.000 euro è la cifra che la Regione ha poi dovuto versare a Beppino Englaro, padre di Eluana, che fu costretto a trasferire la figlia in una struttura sanitaria del Friuli, dove poi morì. La notizia è stata comunicata dall’edizione milanese del Corriere della sera.
Il caso Eluana Englaro
Eluana morì il 9 febbraio 2009 a 39 anni, 17 dei quali vissuti in stato vegetativo ormai irreversibile dopo un gravissimo incidente stradale. Nel 2007 la Cassazione per la prima volta aveva stabilito che ogni individuo può rifiutare le cure alle quali è sottoposto, se ritenute insostenibili e degradanti. Inoltre nel 2008 la Corte di appello di Milano aveva anche autorizzato le interruzioni del trattamento.
Il padre di Eluana chiese quindi l’interruzione artificiale che teneva in vita la figlia, richiesta che fu però respinta dal dg Lucchina che firmò una nota dove spiegava che le strutture sanitarie sono chiamate ad occuparsi della cura dei pazienti e, di conseguenza, che i sanitari che avessero sospeso l’alimentazione della ragazza sarebbero venuti meno ai loro obblighi professionali.
La battaglia legale
Beppino Englaro fece dunque ricorso al Tar che accolse la sua richiesta, tuttavia la Regione non diede corso alla sentenza e un mese dopo Eluana morì. Per i danni morali subiti dalla famiglia Englaro, la Regione fu condannata a pagare 175.000 euro. Nel 2017 la sentenza del Tar divenne definitiva e così la Corte dei Conti avviò un procedimento erariale verso Lucchina.
L’ex dg fu prima assolto, ma poi in appello fu condannato con una sentenza che decretò che nessuna amministrazione sanitaria può negare il diritto tutelato dalla Costituzione di rifiutare le cure. Il rifiuto di Lucchina fu etichettato dalla sentenza della Corte come “frutto di una personale ed autoritativa interpretazione del diritto alla vita e alla salute”.
“Non è stata un’obiezione di coscienza, ma sono state applicate le direttive arrivate anche dell’avvocatura regionale” – ha spiegato Lucchina, che adesso dovrà decidere se ricorrere in Cassazione o accettare la sentenza.

