Pubblicato il 2 Settembre 2025
Una misura che riemerge nel dibattito elettorale
Nel pieno della campagna elettorale che coinvolge sette regioni italiane (Marche, Toscana, Campania, Puglia, Calabria, Veneto e Valle d’Aosta), torna al centro della scena un tema che sembrava archiviato: il reddito di cittadinanza. Introdotto dal primo governo Conte nel 2019, lo strumento aveva sostenuto 4,7 milioni di cittadini con una spesa complessiva di 36 miliardi di euro (circa 7-8 miliardi l’anno), prima di essere in gran parte cancellato dal governo Meloni nel 2024.
Oggi è il cosiddetto Campo largo, l’alleanza guidata dal centrosinistra con forte impronta grillina, a riproporlo. La segretaria del PD Elly Schlein aveva già criticato la cancellazione del sussidio, sostenendo che “non si scherza sul futuro delle persone in difficoltà”, arrivando a fare propria una misura simbolo del Movimento 5 Stelle, come già accaduto con il tema del salario minimo.
Le versioni regionali del reddito di cittadinanza
L’idea di un reddito di cittadinanza regionale ha preso forma in particolare in Calabria, dove il candidato del Campo largo è Pasquale Tridico, ex presidente dell’INPS ed europarlamentare 5 Stelle, e in Toscana, dove Schlein ha spinto il governatore Eugenio Giani a un’intesa con i grillini. Da qui è nato il cosiddetto “patto della Taverna”, immortalato dalla foto con Paola Taverna, storica esponente M5S, che cita esplicitamente il reddito regionale.
Tridico punta a finanziare la misura tramite i fondi europei, mentre in Toscana i dettagli economici restano ancora vaghi. Va ricordato che altre regioni hanno già introdotto strumenti simili:
- in Puglia, il governatore Michele Emiliano ha varato il “reddito di dignità” (500 euro al mese per chi ha un reddito annuo inferiore a 9.360 euro), finanziato fino al 2027 con fondi UE;
- in Sardegna, la presidente grillina Alessandra Todde ha rifinanziato il “reddito di inclusione regionale” con 30 milioni, sempre di provenienza europea.
Ombre e limiti del vecchio reddito
Il reddito di cittadinanza nazionale è stato spesso al centro di polemiche per gli abusi e le irregolarità. In realtà, secondo diversi analisti, il problema non era tanto nei casi di truffa, ma nel funzionamento stesso della misura.
Il sussidio era stato presentato come strumento di inserimento lavorativo, ma le politiche attive per l’occupazione non sono mai decollate. Così, ciò che doveva essere un ponte verso il lavoro si è trasformato per molti in un semplice sostegno al reddito, con il rischio di diventare un incentivo al lavoro nero o alla permanenza nell’inattività.
Il dato più eloquente è che, in tre anni, solo 484 persone sono state assunte grazie agli incentivi collegati al reddito di cittadinanza: un numero irrisorio rispetto alle aspettative iniziali.
Tra inclusione e assistenzialismo
Secondo i critici, la misura ha finito per incoraggiare una logica di dipendenza dallo Stato, invece di stimolare autonomia e responsabilità. È evidente che lo Stato debba intervenire nei casi di povertà estrema, come fa oggi con l’Assegno di Inclusione (ADI) introdotto dal governo Meloni, ma allo stesso tempo è chiaro che non si possa premiare la passività.

