Strage Borsellino: “Non fu solo mafia, ‘Agenda Rossa’ rubata da soggetto istituzionale”

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I magistrati di Caltanissetta, nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini, scrivono che ci fu una partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e 5 uomini della scorta, di altri soggetti: “Non sono stati i boss a fare sparire l’Agenda Rossa” dopo l’esplosione in via D’Amelio a Palermo.

Non ci sarebbe solo Cosa Nostra dietro la strage di via D’Amelio a Palermo, nella quale rimasero uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta; dietro l’attentato, ci furono “convergenze di ambienti esterni”.

I giudici del processo per il depistaggio sulle indagini della strage del 19 luglio 1992 affermano tale tesi nelle oltre 1500 pagine delle motivazioni della sentenza del processo a carico di tre poliziotti, depositate ieri, mercoledì 5 aprile, in cancelleria.

Non solo Cosa Nostra voleva eliminare il giudice palermitano e, a far sparire la famosa ‘Agenda Rossa’ di Borsellino, non sarebbero stati i mafiosi.

Su questo particolare fondamentale, i magistrati scrivono che: “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’Agenda Rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra”.

A dimostrazione dell’intervento di ‘terzi soggetti’ – per i giudici – ci sarebbero l’anomala tempistica della strage di Via D’Amelio che avvenne solo 57 giorni dopo la Strage di Capaci (in cui perse la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e 3 uomini della scorta) e la sparizione dell’Agenda Rossa.

“Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze – scrivono i giudici – in primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.

“In secondo luogo – dicono i giudici del processo depistaggio – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per ‘alterare‘ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”.

“L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla dimostrare sull’ingerenza di terzi soggetti sarebbero “l’anomala tempistica della strage di Via D’Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”.

Per i giudici di Caltanissetta, il “movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse”. Per questo, mettono in discussione la versione sui fatti di alcuni testimoni sentiti nel corso degli anni, tra cui in particolare l’ex giudice Giuseppe Ayala.

“Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda”. Per i giudici “restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”. Secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”.

Il processo si è concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravata contestato ai poliziotti Bo e Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Ribaudo.
   

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Redazione Nazionale

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