Addio Giuseppe De Donno. La terapia al plasma iperimmune salva vite quando si tratta di affrontare la pandemia. E’ una delle poche armi a disposizione: era l’unica, nei primi tempi nei quali imperversava il “nuovo Coronavirus”. Ha un’elevata quantità di anticorpi, che arrivano nell’organismo del malato.
E proprio per questa ragione questo luminare è diventato molto noto: perché era stato pioniere della terapia. Gli dobbiamo molto. Lo scorso giugno questi aveva cambiato lavoro: lasciando l’ospedale Carlo Poma, dove era primario, dopo 27 anni aveva vestito i panni del medico di medicina generale, a Porto Mantovano. Aveva assunto il ruolo di colui che vede e scopre la patologia nel suo nascere, che è a contatto con i malati uno per uno: senza filtri mentali, con meno statistiche. Ma filtri nei confronti del male De Donno non ne aveva posti mai. Nel reparto di Pneumologia l’uomo era stato faccia a faccia con il Covid-19: che toglie il respiro, che lacera i rapporti umani. Non ne era rimasto indenne.
In primo piano, era stato oggetto di critiche, e altre ne aveva rivolte. E’ come un cavaliere in armatura, che lascia il destriero dopo i troppi colpi ricevuti. Il mondo ha molto da perdere da questo accadimento. «Sono stanco – aveva confidato agli amici – stanco dei troppi attacchi che ho subìto, stanco di quelle invettive che ancora oggi, che sono uscito dall’ospedale, continuo a ricevere, anche da parte di colleghi» Riporta la Gazzetta di Mantova: “Di certo in questi diciassette mesi di lotta al Coronavirus non si è mai risparmiato lavorando in ospedale anche 18 ore al giorno e ricordando in più occasioni le notti trascorse sulla poltrona del suo studio al Poma senza tornare a casa. E questo potrebbe aver influito sulla scelta drastica di cambiare vita pur senza smettere il camice bianco”.
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