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Boris Pahor

Boris Pahor: addio al grande scrittore che svelò l’orrore vissuto nei lager (VIDEO)

Pubblicato il 30 Maggio, 2022

“Mi dispiace lasciare la vita. Soprattutto non vorrei perdere il bene dell’intelletto”.

Boris Pahor

Così Boris Pahor. E’ stato accontentato, perché fino agli ultimi giorni è riuscito a mantenere quel gioiello che ha condiviso con chi ha ammirato le sue opere.

Il grande scrittore e intellettuale triestino di lingua slovena, Boris Pahor, è morto all’età di 108 anni.

Ne dà notizia l’agenzia di stampa slovena Sta.

L’intervista rilasciata nel 2013: aveva compiuto 100 anni

Nato a Trieste nel 1913, Pahor è considerato il più importante scrittore sloveno con cittadinanza italiana e una delle voci più significative della tragedia della deportazione nei lager nazisti, raccontata in Necropoli, ma anche delle discriminazioni contro la minoranza slovena a Trieste durante il regime fascista.

L’intellettuale, testimone in prima persona delle tragedie del Novecento, ha scritto una trentina di libri tradotti in decine di lingue, tra cui Qui è proibito parlare, Il rogo nel porto, La villa sul lago, La città nel golfo. 

Pahor si era ritrovato bambino sotto la giurisdizione del Regno d’Italia. Nello stesso periodo era sopravvissuto al flagello dell’influenza detta Spagnola. E a nemmeno sette anni, nel luglio del 1920, aveva assistito appunto al rogo del Narodni Dom triestino, sede delle associazioni slovene, dato alle fiamme dagli squadristi dello spietato gerarca Francesco Giunta.

Subito dopo a Pahor era stata sottratta la lingua madre, perché il fascismo aveva chiuso d’imperio le scuole slave e costretto i loro alunni a frequentare quelle italiane: un autentico trauma. E suo padre, impiegato pubblico, aveva perso il posto di lavoro in quanto aveva rifiutato il trasferimento in Sicilia: uno dei tanti tipi di angherie, spesso anche violente, cui la popolazione croata e slovena fu sottoposta dal regime di Benito Mussolini, che ne voleva estirpare l’identità.

Vennero poi per Boris gli studi nel seminario cattolico di Capodistria, istituzione almeno in parte sottratta alle ingerenze brutali dal fascismo. Una vita all’insegna della doppiezza: fingersi italiano in pubblico e coltivare la lingua e la cultura d’origine di nascosto, assieme ad altri giovani come lui. Quindi l’addio alla prospettiva del sacerdozio e il servizio militare durante la guerra, prima in Libia, sotto le bombe britanniche, poi in Italia come interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Dopo l’8 settembre 1943 e la resa italiana agli anglomericani, vennero il ritorno a Trieste e l’adesione alla Resistenza, pagata con l’arresto e la deportazione.

Boris Pahor
Boris Pahor

Allora, nel 1944, era cominciato il periodo più tragico della vita di Pahor, con la reclusione in diversi lager, situati in Francia e in Germania. Essere un poliglotta (oltre all’italiano e allo sloveno, utile per comunicare con tutti gli slavi, conosceva il tedesco e un po’ di francese) probabilmente gli salvò la vita: venne addetto al compito d’infermiere ed evitò i lavori più pesanti, che riducevano i detenuti a larve umane. Di quei giorni terribili, trascorsi con il lezzo ripugnante della morte sempre addosso, avrebbe scritto nel suo capolavoro Necropoli (1967), definito da Claudio Magris “un’opera magistrale”, composta con “limpida sapienza strutturale”, per il modo in cui riferisce, “con asciutta precisione fattuale”, la realtà agghiacciante dell’”abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto.

Nonostante la sua indiscussa eccellenza letteraria, che lo avvicina alle opere di Primo Levi, Necropoli, scritto ovviamente in sloveno, aveva dovuto attendere trent’anni per essere tradotto in italiano nel 1997, dalle semisconosciute e meritorie Edizioni del Consorzio culturale del Monfalconese, e solo nel 2008 era uscito presso un editore di statura nazionale, Fazi, con la prefazione di Magris. All’epoca Pahor aveva già 95 anni e l’anno prima aveva ricevuto a Parigi la Legion d’onore: i suoi ricordi del lager erano usciti in Francia nel 1990.

Peraltro Pahor per lungo tempo non era stato ben visto neppure in Jugoslavia, poiché si mostrava assai critico verso il regime comunista di Tito. Nel 1975 aveva curato, insieme ad Alojz Rebula, un’intervista uscita a Trieste con il grande poeta sloveno Edvard Kocbek, nella quale quest’ultimo condannava le pesanti atrocità compiute in Slovenia dai partigiani titini dopo la guerra. L’episodio aveva scatenato le ire delle autorità di Belgrado e Kocbek, già in forte odore di eterodossia, era diventato oggetto di una pesante campagna diffamatoria. Solo dopo la nascita della Slovenia indipendente, nel 1992, a Pahor era stato assegnato il premio Prešeren, il più importante riconoscimento culturale del Paese.

Nel 2020 l’onorificenza del presidente Mattarella: la medaglia allo scrittore dedicata alle vittime dei totalitarismi

Del resto anche in Italia, nonostante i molti onori che gli erano stati tributati, compresa la candidatura al Nobel, Pahor era rimasto un personaggio scomodo, senza peli sulla lingua. Non aveva esitato a biasimare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, perché nel 2007 aveva condannato fermamente i crimini dei partigiani jugoslavi senza menzionare quelli compiuti in precedenza dall’Italia fascista sulle popolazioni slave. E nel 2010 aveva rifiutato un riconoscimento del comune di Trieste, perché nelle motivazioni si citavano le sofferenze da lui subite nei lager nazisti, ma non gli abusi cui aveva dovuto sottostare sotto il regime di Benito Mussolini. Non faceva sconti a nessuno dei movimenti totalitari sorti in Europa dopo la Prima guerra mondiale, perché nessuno ne aveva fatti a lui e al suo popolo.

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