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Nuova emigrazione, dall’Italia a Londra sulle ali degli ideali di gioventù

Nata in Sicilia 42 anni fa, Giulia Gentile vive a Londra da più di vent’anni. Qui ha conosciuto il suo compagno, emigrato da Napoli, qui sono nati i loro due figli. Giulia è stata chiamata a far parte di Edible London, una straordinaria rete di solidarietà su cui persino Getty Images ha pubblicato reportage

Pubblicato il 6 Luglio, 2020

“Siamo tutti responsabili di come vanno le cose.  Dobbiamo finirla di dare la colpa a chi sta in alto. Il cambiamento può cominciare benissimo dal basso. Bisogna volerlo e rimboccarsi le maniche”.

Giulia Gentile è nata ad Acquedolci, un paesino in provincia di Messina, 42 anni fa. Ma più della metà della sua vita l’ha trascorsa a Londra, dove è arrivata appena diciannovenne in fuga dal conformismo italiano. Lì ha conosciuto il suo compagno, Antonio, emigrato da Napoli, e lì sono nati i loro due figli, Ceiba e Leila. Qualche anno fa a Giulia venne chiesto dalla scuola londinese frequentata da sua figlia di tenere laboratori per gli alunni. Un attestato di stima e di fiducia basato sulla frequentazione della famiglia e della piccola Leila.

Oggi Giulia tiene sistematicamente workshop d’arte per bambini. E i responsabili di Edible London – una straordinaria rete di volontariato che combatte strenuamente la “povertà alimentare”, nella metropoli londinese e alla quale persino Getty Images ha dedicato ampi spazi – le hanno chiesto di farne parte per seguire specifici progetti. In queste sue nuove avventure, Giulia porta con sé le emozioni e le esperienze dei primi anni a Londra. E, soprattutto, ha tenuto fede, fino in fondo, ai suoi ideali di gioventù, continuando a metterli in pratica in mille modi diversi.

 “Volevo vivere a modo mio la mia unica vita. E così ho fatto”

“Londra, così come la immaginavo attraverso le canzoni, l’arte, i racconti, i video, mi incuriosiva e mi faceva sognare”, racconta. “Volevo capire se Londra avrebbe potuto essere il luogo in cui la mia voglia di libertà, di anticonformismo, la mia aspirazione ad una società più variegata anche culturalmente potesse trovare modo di esprimersi senza provocare lo stupore e la disapprovazione che in Italia suscitavano allora i miei jeans strappati (che sarebbero stati di moda vent’anni dopo) o i miei capelli viola o i miei orecchini al naso. Insomma volevo conoscere, volevo viaggiare. Volevo vivere a modo mio la mia unica vita e così ho fatto”.

“A Londra è impossibile per i miei figli vivere in libertà come facevo io in Sicilia”

Ad Acquedolci Giulia ha vissuto solo fino agli 8 anni. Poi con la sua famiglia si è trasferita a Vigonza (Padova), vicino alla casa dei suoi nonni materni. E da lì, dopo le medie, ha frequentato l’istituto d’arte di Venezia.

“Acquedolci è legata al ricordo della mia famiglia unita: una famiglia numerosa e piena di vita in cui si stava a pranzo tutti insieme, nonni, zii, fratelli, sorelle, cugini. Eravamo in tanti e c’era sempre modo di scambiarsi esperienze, racconti e affetto. E poi c’era la vita all’aperto. La libertà che ho avuto la fortuna di avere in quegli anni è qualcosa a cui penso spesso quando guardo i miei figli crescere. È una cosa che a loro manca e che non potranno mai avere vivendo in questa città complessa e vasta dove i rapporti più profondi sono quelli all’interno del nucleo familiare e quelli sociali sono molto più circoscritti, anche per motivi di sicurezza”.

Se questo è il legame con la “radice” siciliana, un altro è il legame con Venezia. È fatto dei ricordi di un’adolescenza un po’ turbolenta, sempre incline alla contestazione, di cortei e manifestazioni di protesta a cui Giulia ha partecipato “con l’idea che si potesse costruire una società più aperta alla diversità, meno ingessata sugli stereotipi e meno costruita sulle apparenze. Per me vedere la gente valutarsi in base alle apparenze, apprezzarsi o disprezzarsi con riferimento alle immagini che la società dei consumi si aspetta che noi indossiamo è sempre stato molto triste, qualcosa che non ho mai accettato”. E “l’istituto d’arte a quei tempi era incredibile, un laboratorio di creatività, di fermenti innovativi. L’idea inespressa ma condivisa era che noi non ci saremmo omologati, non saremmo diventati delle sardine nelle scatole del sistema, saremmo stati qualcos’altro anche se nessuno sapeva bene cosa fosse questo qualcos’altro”.

Arrivata a Londra, Giulia ha approfondito le sue competenze, attraverso corsi e laboratori artistici, dedicandosi in particolare alle tecniche di lavorazione della ceramica e dei tessuti, sempre attratta “dalla possibilità di dare forma e materia al pensiero e all’immaginazione”. E lì ha notato subito “un’impostazione didattica dei corsi molto pragmatica e una disponibilità di materiali e strumenti davvero ricca. Caratteristiche che poi avrei riscontrato anche nelle scuole frequentate dai miei figli dove alle aule con i banchi tradizionali si preferiscono sempre i laboratori cioè degli spazi in cui imparare facendo”.

Quei primi indimenticabili anni a Londra trascorsi da squatter

Nei suoi primi anni londinesi, per Giulia e per tanti ragazzi come lei era difficile affittare una casa. Allora, però, c’era la possibilità “legale” di abitare gli edifici dismessi o le case abbandonate dopo fallimenti, trasferimenti o migrazioni dei proprietari. “E così è stato a lungo, finché il governo non è intervenuto cambiando le leggi”.

Furono “anni indimenticabili”. Giulia viveva a contatto con persone di tante nazionalità, “si affrontavano insieme le difficoltà di ogni giorno, la ristrutturazione, la trasformazione, la suddivisione e la gestione degli spazi e la convivenza”. E se deve dare un’idea di quel periodo, a Giulia viene in mente una casa vittoriana di tre piani di Jenner Road. “C’era un nostro vicino che chiamavamo Bukowski perché somigliava allo scrittore, aveva 70 anni ed era di origine turca. Trascorreva spesso le giornate con noi, bevendo un bicchiere di vino e conversando. Aveva una Cadillac rossa appartenuta a Elizabeth Taylor e comprata all‘asta di cui era molto fiero. Per noi era importante avere un buon rapporto con i vicini, i quali non trovavano affatto strana l‘occupazione delle case. Si trattava di strutture che altrimenti sarebbero cadute in uno stato di abbandono e alle quali noi davamo una seconda vita. Per molti di noi la casa di Jenner Road è stata il nido su cui sostare dopo aver spiccato il volo. Lasciarla è stato un vero lutto. Abbiamo costruito una bara in cartone e sfilato per strada in corteo come protesta. A noi, ancora adolescenti pieni di sogni, con le mani sporche di pittura e in tasca gli arnesi con cui avevamo aggiustato quella casa, che il governo volesse chiuderla sembrava davvero un’ingiustizia … l’avevamo riportata in ‘vita’ e volevamo continuare a stare lì, proprio come dei bambini!”.

La scuola abbandonata diventata quasi una casa d’arte

A raggiungere Giulia a Londra, nel 2003, era arrivata anche la sorella, di qualche anno più grande, Antonella. “Con lei e altri amici abbiamo occupato una scuola abbandonata con tanto di giardino. L’abbiamo sistemata e dipinta, pareti di colori diversi, reti da pesca sospese e cordame come attaccapanni… e proprio quando era a posto, d’improvviso, è arrivata a trovarci nostra madre. Non potevamo crederci, ma lei era lì. Io e mia sorella avevamo il batticuore. L’abbiamo fatta girare per le stanze, le abbiamo presentato gli altri occupanti. Ci aspettavamo una predica, un rimprovero. E poi, mentre guardava in silenzio la vasca da bagno old style che riempivamo con bacinelle trasportate dalla cucina, lei con grande calma ha detto una frase memorabile: Questo posto è bellissimo. Mi ricorda la casa di Frida Kahlo. Ottimo lavoro!”.

Convivere con persone di tutto il mondo, imparare le lingue e viaggiare

Negli anni da squatter, Giulia ha vissuto con tantissima gente di tutto il mondo e ha imparato “lo spagnolo, l‘inglese, un po’ di portoghese e un po’ di francese”. E quella “esplosione di emozioni e di esperienze dei primi anni a Londra ha rappresentato un punto di partenza per tanti altri viaggi. Ogni volta che potevo partivo, in aereo, in treno, in macchina, in furgone, chiedendo passaggi come in Galles e in Olanda. Sono andata diverse volte in Spagna alle Canarie, in Germania, in Belgio, in Portogallo, in Romania, in Francia, in Messico, in Marocco”. Tra voli economici e viaggi on the road, che lei adora – “è il modo migliore per vedere come cambiano i paesaggi e venire più a contatto con la gente” – ha anche deciso di acquistare un terreno in Francia insieme con la sorella. Ci erano andate per fare una vendemmia e di quella terra si sono innamorate. “È in mezzo ad un bosco, completamente immerso nella natura e vicino ad un lago. Ci torniamo ogni anno per farci dei lavori, ristrutturare la casetta. Non abbiamo avuto ancora modo di finire ma siamo a buon punto e quello rimane il nostro piccolo paradiso nella natura”.

Al lavoro sempre, dalle pulizie dopo i concerti a fare il “conta traffico”

“Un’altra cosa che ricordo dei primi anni a Londra – continua Giulia – era lavorare nei festival: andavamo in questi campi immensi e, dopo aver ascoltato i concerti, ripulivamo tutto. Si lavorava all’aperto, eravamo in tanti, si faceva amicizia, si dormiva nei furgoni. Dovevamo raccogliere tutto quello che c’era nell’erba e riciclarlo. Era un modo per rimettere in ordine la natura e ci faceva riflettere su quanto sia incoerente amare la musica e non rispettare l’ambiente in cui la si ascolta, trasformandolo in una discarica”. Ma non c’era solo questo “mestiere”. Giulia ha lavorato spesso come city clicker, “il conta traffico”. “Ci davano un affarino con tanti bottoni e dovevamo contare i bus, le macchine, le persone, per poi elaborare delle statistiche finalizzate a migliorare la gestione del traffico. Un altro modo per conoscere spazi e persone, conoscere diverse zone della città e rendersi conto della sua vastità”.

D’altronde “per vivere a Londra bisogna essere disposti a lavorare dove c’è da lavorare, senza pensare di poter fare solo quello per cui si è studiato o quello per cui ci si sente portati”. Ne è un esempio la sua vita, ne è un esempio anche quella del suo compagno. Giulia e Antonio si sono conosciuti nel 2003 ad una festa ad Hackney, un quartiere di Londra non lontano da dove vivono ora. Antonio adesso fa il giardiniere ma ha fatto “centinaia di lavori da quando è arrivato a Londra, dal cuoco al fattorino delle consegne, dall’organizzatore di eventi ad autista di autobus o di ambulanze, da tecnico aggiusta macchine del caffè a pittore e falegname. Lo ammiro molto per questo. È incredibile la sua capacità di adattamento. A Napoli si chiama l’arte di arrangiarsi, la capacità di risolvere problemi imparando a resistere e ad andare avanti anche nell’epoca del lavoro precarizzato, senza demordere”.

Un compagno, due figli, tre cani e il volontariato

Oggi Ceiba, il primo figlio di Giulia e Antonio, ha quasi 13 anni. È appassionato di tecnologia, ingegneria, lettura: gli piacciono molto le auto, le attrezzature innovative e si informa sulle invenzioni di ultima generazione. È un ragazzo molto amato sia dai compagni sia dai professori e i suoi docenti lo hanno incluso tra gli alunni già segnalati alle Università del gruppo Russell. “È un piacere ascoltarlo, spero che questo entusiasmo lo porti a raggiungere i suoi obbiettivi”, commenta Giulia. “Gli dico sempre che sono old style e deve avere pazienza con me se a volte non riesco a seguirlo e che deve continuare a coltivare i suoi interessi con questo stesso entusiasmo”.

Leila è “una pazzerella di quasi 6 anni, con un’ immaginazione senza limiti. È incredibile anche la sua forza di volontà. Vuole essere all’altezza degli adulti, cerca sempre di aiutarmi qualsiasi cosa io faccia. Ma quello che mi fa sorridere di più è che intende partecipare sempre ai nostri discorsi dicendo la sua. E ne vengono fuori davvero delle belle!”.

La famiglia comprende anche, da sempre, uno o più cani. Appena arrivata a Londra Giulia ha preso con sé Ruth, una cagnolona che la capiva al volo e l’ha seguita dappertutto per 12 anni. Ed era proprio con Ruth quando trovò Babù vicino Lisbona. Un’altra femminuccia, esile e denutrita, che vagava per le strade del Portogallo. Bianca bianca e con gli occhi azzurri. “Mi sembrava che mi chiedesse con lo sguardo di portarla con me. Ma io non potevo. Non avevo un mezzo per muovermi e avevo già Ruth. Quindi l’ho lasciata lì, anche se avrei preferito non farlo”. Solo che, tre giorni dopo, l’ha ritrovata a molti chilometri di distanza da dove l’aveva vista la prima volta. “A quel punto non ho più potuto dirle di no. E l’ho presa con me”. La terza, Lana, è invece una randagia italiana. Giulia l’ha vista in una foto di una onlus di Roma ed è andata a Padova per prenderla in consegna. La cagnetta però è dovuta rimanere in Italia per un mese di quarantena, ed è stata ospitata dalla sorella di Giulia, che nel frattempo, dopo nove anni londinesi, era tornata a stare a Venezia. Qui Lana ha vissuto persino l’esperienza dell’acqua alta. E alla fine ha potuto andare nella sua forever home londinese con Antonio che è partito da Londra per portarla a stare con loro.

Quella di Giulia con gli animali abbandonati è d’altronde una storia d’amore infinita. Cominciata con un pastore tedesco trovato a Vigonza, abbandonato nel mese d’agosto, quando lei aveva appena 8 anni. Quel pastore è stato adottato da un “branco” di bambini, tra i quali appunto Giulia, che se ne sono occupati giorno dopo giorno, tenendolo una settimana ciascuno. Anche se il cane era molto più alto di loro. 

A Londra insegnanti, impiegati e medici “di tutti i colori”. Brexit o non Brexit

“Con Londra – dice oggi Giulia, vent’anni dopo esserci arrivata – ho un rapporto di amore e odio, mi mancano la famiglia, il mare, la nostra cucina, la nostra cultura, ma sento che la città mi ha dato tanto perché mi ha aperto gli occhi, mi ha riempito di esperienza, di memorie, di incontri, che non posso dimenticare. Io adoro sentire parlare lingue diverse, vedere persone di tutto il mondo riuscire ad integrarsi e diventare quello che vogliono, mi rincuora vedere all’opera insegnanti, impiegati, medici di tutti i colori e poi non potrei più rinunciare ai parchi immensi e ai musei straordinari che ci sono sparsi per tutta la città”.

E la questione Brexit? “Non so come andrà a finire, spero sempre che si possa trovare un‘alternativa, un accordo, una ipotesi di cooperazione. Speravo che, dopo il primo, il secondo referendum dimostrasse un ripensamento, ma non è stato così. Ha prevalso un sentimento di chiusura, di insicurezza, di paura forse generato dagli effetti della globalizzazione e da quelli dei flussi immigratori sempre più imponenti. Io comunque resto una sognatrice e cerco di essere positiva. Spero sempre che a ogni persona sia possibile migliorare la propria vita, realizzare i propri sogni. Se ci sono milioni di persone in movimento, in fuga dalle guerre o dalla fame, bisogna chiedersi perchè, capire cosa si può fare per aiutarli. Le soluzioni le abbiamo, ma spesso non sappiamo realizzarle o, meglio, le persone che hanno la possibilità di migliorare la nostra società spesso fanno solo i loro interessi o quelli della parte di società che rappresentano. E allora sta a noi, piccole gocce d’acqua, fare qualcosa per gli altri. Con amore, con passione, con solidarietà”.

Solidarietà, non solo una parola ma un impegno quotidiano

“Se vogliamo cambiare le cose – spiega Giulia – dobbiamo partire dalle azioni semplici, dai semini da cui si forma la radice. E questo vale come metafora ma anche come fatto concreto! Dobbiamo piantare più alberi, creare gli orti comuni in modo che chiunque ne abbia accesso, condividere le nostre conoscenze con gli altri, imparare ad aiutarci l’un l’altro, a rispettare la natura, a scambiarci le cose che non usiamo, a ridurre l’uso della plastica e a ridurre gli scarti alimentari. Sono comportamenti che tutti possiamo decidere di adottare senza aspettare la ‘rivoluzione’”.

Rendere Londra “commestibile”: una rete che dona 56 mila pasti a settimana

Nei tre mesi di lockdown Edible London – che ha in corso una raccolta di fondi in crowdfunding – ha fornito più di 56 mila pasti a settimana, un’operazione che è diventata indispensabile per la sopravvivenza di migliaia di persone.

“Durante questo periodo siamo passati da 30 volontari a 400. Comune di Londra ha affiancato l’associazione condividendone l’etica e gli obiettivi, diversi partner si sono fatti avanti con le loro donazioni, supermercati, negozi, ristoranti, altre associazioni si sono messe a collaborare “e grazie a tutto questo si è creato un sistema perfettamente funzionale e operativo. Gli enti locali hanno affidato ai volontari a costo zero Alexandra Palace che è il secondo venue più importante di Londra. Lì la mattina arriva il cibo, pallet con quintali di cibo non venduto o donato, o comprato a poco prezzo nei mercati generali, e i volontari lo dividono, lo puliscono, una parte viene mandato nelle cucine dove viene cucinato e portato agli homeless che vivono per strada o nei centri di accoglienza, altro va in alcune scuole, altro in centri giovanili. Il resto va tutto diviso in borse che i volontari consegnano direttamente nelle case di chi ha fatto richiesta e quello che non può essere mangiato va nel composto per gli orti. La plastica riciclata viene usata per riempire delle bottiglie che poi diventano mattoni delle strutture costruite negli orti, i pallets vengono trasformati in vasi o in tavoli, come nel progetto che ho fatto con mio figlio e due suoi amici. La frutta che avanza viene usata per fare le marmellate, i vestiti vengono donati a chi ne ha più bisogno. Insomma è una catena di solidarietà che opera per ridurre lo scarto, la fame, la povertà e per aiutare il nostro pianeta. E funziona! E questa è la prova che si può fare ovunque, basta volerlo”.

“Possiamo fare tutti qualcosa per dare un futuro migliore ai nostri figli”

“Le persone che hanno creato tutto questo, Sunny, Chris, Tammy, Victoria, Max, solo per citarne alcuni – conclude Giulia – sono persone speciali. Sono partite con un seme in mano e l’entusiasmo in cuore e hanno ‘contagiato’ tantissimi altri con i loro valori e i loro sogni. Cosa c’è di meglio di un sistema così organico e sostenibile? È questo che deve cambiare nel nostro mondo. Possiamo fare tutti qualcosa, non importa quanto tempo tu possa dedicarci perché ogni piccolo gesto conta. Ogni ora è qualcosa. Con il cambio climatico, la pandemia, le guerre, la fame, se non ci si aiuta fra di noi andrà sempre peggio. Io vorrei un futuro migliore per i miei figli, ma non solo per loro perché ogni forma di  vita è interconnessa e il nostro avvenire è anche quella della terra”.

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