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Giorno della memoria: "Il mito del bravo italiano è duro a morire, ma deve fare i conti con la storia"

Giorno della memoria: “Il mito del bravo italiano è duro a morire, ma deve fare i conti con la storia”

Pubblicato il 27 Gennaio, 2021

Giorno della memoria. “Il mito del bravo italiano è duro a morire, ma deve fare i conti con la storia. La popolazione del Bel Paese non è responsabile soltanto di delazione, in seguito alle leggi razziali”: dal confino all’eccidio dei fratelli Cervi, fino ai campi di concentramento, che in molti, in troppi casi costituivano il preliminare per Auschwitz e per lo sterminio, si delinea l’aspetto del regime fascista. I campi di concentramento fascisti erano 15, per esempio, in tutto l’Abruzzo. L’Aquila non aveva un campo, ma tante località di internamento. Abbiamo intervistato in argomento Giuseppe Lorentini: lo abbiamo raggiunto in Germania, nella Renania Settentrionale-Vestfalia. Questi è ideatore e responsabile curatore del Centro di documentazione on line sul campo di concentramento fascista di Casoli (Chieti), nonché autore del libro L’ozio coatto, edito da Ombre corte, Verona 2019. Queste le sue parole. “I campi di concentramento fascisti non devono essere relativizzati o banalizzati. Erano destinati a civili che il regime perseguitava: non soltanto a sudditi nemici dei Paesi belligeranti con l’Italia. Si trovavano in edifici pubblici e privati, come fabbriche e monasteri. Strutture preesistenti, oppure costruite ex novo. Erano strumenti tali da facilitare il rastrellamento e la deportazione: erano l’anticamera dello sterminio. Si trattava di strutture amministrative di repressione: forme concentrazionali non associate al lager o al gulag. Esistevano nel contesto di riferimento gestito dalla Pubblica sicurezza (Ministero dell’Interno) e ospitavano stranieri ‘indesiderabili’, elementi considerati pericolosi, posti sotto la lente del regime. Le persone che vi si trovavano avevano perduto ogni diritto, non potevano appellarsi. Si trovavano bloccate, in uno spazio di confino. Il loro collegamento con l’esterno era ridotto. La corrispondenza contava al massimo 24 righe, soltanto in lingua italiana: era sottoposta a censura in entrata e in uscita. Anche quando si trattava di essere informati di problematiche di forza maggiore, che riguardavano i loro congiunti, i loro contatti con l’esterno. C’è una rilevante documentazione in merito alle lettere mai ricevute, mai lette: queste ultime erano sottoposte a controllo meticoloso. Pensate alle lettere d’amore; considerate i casi di necessità segnalati, dei quali non si è mai giunti a conoscenza. Anche per quanto riguarda la vita quotidiana durante l’internamento, bisogna distinguere tra le due categorie di internati che passarono per il campo fascista di Casoli. Dalle carte conservate nei fascicoli personali degli ‘ebrei stranieri’ si comprende che essi godettero di maggior libertà di movimento rispetto agli internati politici ‘ex jugoslavi’. Agli ebrei fu concesso di muoversi al di fuori dei limiti del ‘confino’ del campo per passeggiare per il paese dove potevano fare compere presso i negozi di abbigliamento, tabaccherie, recarsi al bar, ma soprattutto pranzare o cenare presso le trattorie del luogo. Chiaramente questo fu possibile soltanto per i più facoltosi che ricevevano altrettanti aiuti economici dai famigliari. I meno abbienti, si arrangiavano facendo cassa comune per fare la spesa insieme e cucinarsi il cibo con fornelletti ad olio all’interno delle due camerate dei locali del campo. Con il trasferimento degli ebrei nel campo di Campagna e l’arrivo degli ‘internati politici’ dal campo di Corropoli, cambiò anche la destinazione d’uso del campo di Casoli. Per questi internati la vita quotidiana si fece più dura. Arrivarono in condizioni di estrema povertà come si legge nelle loro istanze per la richiesta di vestiario, scarpe e biancheria intima. Indossavano gli stessi vestiti da oltre un anno e tutti necessitavano del sussidio ministeriale di 6 lire e 50 al giorno. A loro non venne permesso di uscire dal campo se non per svolgere mansioni autorizzate dalla direzione relativamente all’intero gruppo di internati. Con il nostro lavoro di ricerca e catalogazione della documentazione, queste persone sono uscite dall’oblio. Il primo gruppo di internati era formato da ebrei stranieri: tedeschi, polacchi, austriaci, provenienti quindi anche da Paesi alleati. In dieci morirono nei campi di sterminio, dopo l’8 settembre 1943, sotto l’occupazione tedesca dell’Italia: in nove ad Auschwitz, uno a Risiera di San Sabba, nella struttura gestita dai nazifascisti. Uno sopravvisse a Bergen-Belsen. Nei primi giorni di maggio del 1942, gli internati ebrei furono trasferiti nel campo di Campagna (Salerno) e a Casoli arrivarono, come detto, gli internati politici, per la maggior parte civili, indicati come ex Jugoslavi (originari delle terre di occupazione italiana in Jugoslavia), trasferiti dal campo di Corropoli (Teramo)”.

Giorno della memoria, Casoli: una miriade di storie da raccontare

“Ci sono una miriade di storie da raccontare. Il triestino Livio Isaak Sirovich, per esempio, ha rinvenuto una lunga serie di lettere tra Rita Rosani Rosenzweig (ebrea triestina) e il suo promesso sposo Giacomo Nagler, internato a Casoli. Sirovich ha scritto un saggio romanzato sull’argomento: “Non era un donna, era un bandito”. Rita Rosani una ragazza in guerra, Cierre Edizioni, Verona 2014. Il carteggio relativo al fondo Nagler raccoglie alcune lettere del carteggio tra Rita Rosani con il suo fidanzato Giacomo Nagler (detto Kubi), internato insieme al padre Salo Nagler nel campo di concentramento di Casoli, entrambi poi arrestati il 3 novembre 1943 a Castel Frentano (Chieti), raccolti nel carcere di Milano e diretti al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau con il convoglio numero 6, Milano carcere partito il 30 gennaio 1944 e arrivato il 06 febbraio 1944 (con morte certa)”.

Giorno della memoria: la vicenda di un pittore

Iolanda Cagnina, ritratta da Hans Brasch

E ancora: “Iolanda Cagnina racconta la storia del pittore ebreo tedesco Hans Brasch, internato a Casoli. La ritrasse all’età di nove anni nel 1940. L’acquerello è nella foto. L’uomo si era diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Berlino. Il suo nome fu italianizzato dal regime fascista in ‘Giovanni’. Risiedeva a Trieste ma il 9 luglio 1940, dopo la retata di arresti degli ebrei stranieri del 15 giugno 1940 per ordine del capo della polizia Arturo Bocchini, dal carcere Coroneo triestino fu tradotto nel campo di concentramento di Casoli, insieme ad altri 50 ‘ebrei stranieri’, tutti residenti a Trieste“.
Angelo Batti, suo allievo, si è espresso in questo modo: “Conservo ancora gelosamente la tavolozza che mi regalò, l’eccellente caricatura che mi fece e alcuni bozzetti sia suoi che miei, del suo ritratto a matita fatto in treno mentre s’appisolava. Quello che ricordo, il suo triste racconto di tutti i suoi familiari trucidati… Restando lui, unico superstite dell’intera famiglia sfuggendo alla cattura. E così, diceva… d’aver attraversato sia a piedi che con mezzi di fortuna, paesi e città, sino ad arrivare a Salerno, dove trovò ospitalità presso una famiglia ubicata nel Vicolo della Neve. Questo è quanto mi sovviene riguardo Giovanni Brasch: ottimo acquerellista, buon amico ed eccellente suonatore di violino”.

Giorno della memoria: a Casoli un lavoro di raccolta capillare

Torniamo a interpellare Giuseppe Lorentini. Funziona oggi il perpetuarsi della memoria a Casoli? “Con il nostro lavoro di capillare raccolta di materiale, a Casoli siamo diventati un modello, di respiro europeo, anche in relazione alla ‘Liberation Route Europe’ di stampo olandese (un itinerario che si snoda attraverso otto paesi, toccando siti commemorativi della Seconda guerra mondiale). A una mostra che abbiamo realizzato hanno partecipato i sindaci del Sangro-Aventino, che hanno espresso la loro vicinanza. Mattarella nel 2018 è stato a Casoli in visita ufficiale, la senatrice Liliana Segre ci ha prestato attenzione. Promuoviamo la memoria in chiave attiva e partecipativa. Presso di noi i ragazzi si formano sulla storia locale, che si incastra con lo studio del Novecento. Svolgiamo un lavoro pedagogico-didattico, proponiamo un’esperienza conoscitiva e scientifica. A Casoli, si lavora sui documenti: i cittadini portano avanti la conoscenza, ci sono guide specializzate e studenti che lavorano come volontari. L’obiettivo è studiare, senza pregiudizi. Il bagaglio culturale che abbiamo raccolto invita a pensare, a riflettere: in questi tempi bui, nostalgici, mentre ci imbarazzano i commenti denigratori dei revisionisti dell’ultima ora. E’ in questo modo che la memoria acquisisce i propri marcatori, i propri vettori, i propri agenti”. Sarà inaugurato ad aprile l’imponente monumento dedicato alla memoria degli internati nell’ex campo fascista. È un’operazione storicamente rigorosa e umanamente toccante, che l’amministrazione comunale ha avviato grazie alla spinta del lavoro di ricerca storica del giovane studioso che abbiamo intervistato. La memoria non si promuove in un solo giorno.
“È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella di chi è conosciuto. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica.” Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Band 1, Teil 3, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1974, S. 1241

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