Oltre duecento testimoni ascoltati e un milione di documenti spulciati, oltre a tre anni di lavoro. “Nessuna inchiesta è stata più esaustiva di questa”, ha detto il senatore repubblicano Marco Rubio, presidente ad interim della Intelligence.
La Commissione del Senato cioè che ha chiarito una volta per tutte i sospetti sulla Casa Bianca. Ebbene sì, quattro anni fa in occasione delle elezioni presidenziali, tra diversi consiglieri della campagna elettorale del futuro Presidente Donald Trump e la Russia di Putin ci sono stati molti contatti. Una rete molto ben organizzata.
Il rapporto della commissione è basato principalmente sulle relazioni tra l’allora capo della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort (che sta scontando una pena di 7 anni e mezzo), e l’agente dell’intelligence russa Konstantin V. Kilimnik.
Insomma, il Russiagate è tutt’altro che un’invenzione e sicuramente non “una caccia alle streghe” com’era stata definita l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller, già capo del FBI (nella foto).
Viene insomma dimostrato che le relazioni internazionali e segrete di Manafort hanno rappresentato “una grave minaccia per il controspionaggio Usa” e per lo Stato stesso. Anche il genero Jared Kushner, e il figlio maggiore del Presidente Donald Trump Jr. avevano “legami significativi con il Governo russo, compresi i servizi segreti russi”.
E adesso repubblicani e Presidente sono sotto attacco. Il rapporto della commissione potrebbe influire sul prossimo voto. Rubio ha ammesso sì le prove “inconfutabili delle interferenze russe”, ma ha voluto chiarire che “non vi sono prove certe”. E’ la linea di difesa dei rappresentanti dell’elefantino.
Mark Warner, il vice presidente democratico della commissione, ha sottolineato le coincidenze e le prove del “un livello sconvolgente di contatti tra staff di Trump e agenti del governo russo”. “Una vera minaccia per le nostre elezioni” ha concluso. Anche quelle che verranno.
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