Oncologo faceva pagare a malati terminali farmaci “miracolosi” che erano gratuiti per il Servizio Sanitario

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Non solo dava false speranze a malati terminali di cancro prossimi alla morte, ma pretendeva il pagamento profumato di cifre molto elevate per farmaci “miracolosi” che in realtà erano gratuiti, poiché li passava il Servizio Sanitario Nazionale.

Questa è l’accusa mossa dalla Procura di Bari nei confronti di Giuseppe Rizzi, oncologo barese di 66 anni, sotto processo per concussione e truffa aggravata.

Marcello Quercia, pubblico ministero che sta seguendo il caso, ha chiesto per lui 10 anni di reclusione e il risarcimento simbolico di un euro per ogni medico iscritto all’Ordine di Bari.

Sotto indagine anche la moglie dell’oncologo, l’avvocato Maria Antonietta Sancipriani, accusata di complicità nella truffa e per la quale sono stati chiesti 4 anni di reclusione.

Farmaci miracolosi a malati terminali: l’inchiesta partita dopo la morte di un uomo

Come racconta l’edizione barese de La Repubblica, l’indagine è partita nel 2019 dopo la denunci dei familiari di un paziente morto per tumore, che in un anno avrebbe consegnato a Rizzi 127.000 euro per le cure, che avrebbero dovute essere gratuite poiché rimborsabili tramite il Servizio Sanitario Nazionale.

I figli dell’uomo si sono costituiti parte civile e adesso chiedono il rimborso di un milione di euro. L’inchiesta ha consentito di individuare altre 17 persone, alcune delle quali decedute nel frattempo, come parti offese.

Secondo le indagini Giuseppe Rizzi, che a suo tempo lavorava all’Istituto tumori Giovanni Paolo II, si sarebbe fatto pagare fino a 7.000 euro per ogni iniezione del farmaco dando false speranze ai pazienti. Si stima che in 10 anni l’uomo avrebbe racimolato la bellezza di 2,5 milioni di euro.

Il medico è però anche accusato di aver truffato l’istituto oncologico, in quanto sembra che percepiva un’indennità aggiuntiva di 1.000 euro mensili al suo stipendio per non effettuare attività privata, che invece effettuava regolarmente e a pagamento. La moglie gestiva un Caf che, a seconda delle necessità, veniva adibito anche a laboratorio medico. Per entrambi la sentenza è attesa per settembre.

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Redazione Nazionale

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