“Bimbominkia” non si può dire sui social: arriva la sentenza della Corte di Cassazione

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“Bimbominkia” non si può scrivere sui social: si vuol definire infatti una persona con un quoziente intellettivo sotto la media. La Corte di Cassazione, in un particolare caso, parla di diffamazione aggravata, come si legge in una sentenza.

Che cos’è un “bimbominkia”

“Bimbominkia”, nel codice della rete, è il giovane utente che secondo il vocabolario Treccani “si caratterizza, spesso in un quadro di precaria competenza linguistica e scarso spessore culturale, per un uso marcato di elementi tipici della scrittura enfatica, espressiva e ludica”, come grafie simboliche e contratte ed emoticon.

Basta una sigla per la diffamazione

Spiega ancora Wikipedia: “Nel gergo di internet ‘bimbominkia’ (a volte riportato con la grafia ‘bimbominchia’ e abbreviato con le sigle BMK e BM) è un termine con connotazione negativa che indica un utente, spesso adolescente, di scarsa cultura e capacità linguistica. Si esprime con un linguaggio basato su errori sintattici e grammaticali, colmo di anglicismi spiccioli, frasi abbreviate da acronimi e decorate da emoticon e altri simboli virtuali. Si è inoltre soliti identificare come ‘bimbominkia’ una persona dal carattere infantile, autoreferenziale, arrogante, eccessivamente attaccata alla tecnologia e abituata a pubblicare numerosi selfie sulle reti sociali. Altra caratteristica con cui si distingue è il suo modo di vestire, che si ispira ai musicisti emo e ai cantanti pop californiani“.

Leggiamo la sentenza

Nella sentenza della Cassazione, la persona offesa è Enrico Rizzi, animalista di Trapani. In passato era stato condannato dagli stessi Ermellini di piazza Cavour a un risarcimento di 60mila euro, per aver offeso la memoria del presidente del consiglio regionale Diego Moltrer, cui erano stati erroneamente tributati appellativi come “vigliacco” e “infame”, perché appassionato di caccia e concorde con coloro che avevano catturato un’orsa.

Un’amica di Moltrer ha poi definito Rizzi “bimbominkia” ed è stata condannata. Secondo la Suprema corte, la diffamazione è aggravata perché Rizzi fu definito tale (Secondo la Cassazione, quindi, “persona con un quoziente intellettivo sotto la media”) in un gruppo Facebook di più di duemila iscritti.

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Redazione Nazionale

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