Le attività veneziane hanno gli occhi a mandorla

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L’AGI ha analizzato i numeri delle imprese dell’ultimo decennio (2010-2020) per capire la portata del ‘fenomeno’. Il quadro che emerge dai dati sulle imprese registrate alla Camera di Commercio di Venezia non lascia spazio a dubbi: in dieci anni il numero degli imprenditori cinesi è passato dai 528 del 2010 ai 968 del 2020 facendo registrare un +83% (+440).

Tra i bar e ristorazione gli esercizi gestiti da italiani sono passati da 4.379 a 4.090 (-289) con una flessione pari ad un -6% mentre quelli gestiti da cittadini cinesi sono cresciuti da 301 a 542 (+241) facendo registrare un +80%. Non va meglio nella vendita al dettaglio dove in un decennio l’imprenditoria italiana ha patito un – 23% (da 8.259 a 6.341) mentre quella cinese ha visto una impennata del 43% (da 181 a 259). 

 “Se sono onesti a lavorano bene non vedo il problema – spiega all’AGI Cristina Giussani, presidente di Confesercenti Veneto -, certo dispiace vedere locali storici magari della tradizione enogastronomica veneziana diventare tutt’altro. Una osteria tradizionale in mano a cinesi diventa spesso un bar generalista uguale a quelli di tutto il resto del mondo. Allo stesso modo se un veneziano oggi deve comperare un paio di scarpe o acquista un modello da 400 euro o cineserie da 10 e questo perché il prodotto intermedio non c’è più”.

Gli esempi di locali storici passati di mano negli ultimi tempi sono moltissimi: il bar gelateria Da Nini di Cannaregio, ceduto dopo 46 anni, il ristorante Burchielle di piazzale Roma (dove però gli imprenditori cinesi hanno avuto l’accortezza di tenere i cuochi italiani), il fotografo di Ponte dei Giocattoli che dopo 70 anni ha gettato la spugna sotto i colpi di affitti da 7mila euro al mese, la Fioreria Frecceria tra La Fenice e San Marco (qui l’affitto arrivava a 16 mila euro al mese). O come Marco Francalli, ex titolare di un negozio storico che vendeva prodotti tradizionali (vetri di Murano) a due passi da Piazza San Marco, uno dei luoghi più iconici della città. “Ero stanco – spiega – anche perché non andava tanto bene il commercio a causa della nascita di tutti quei negozi di souvenir che mi avevano ormai circondato. Prima di cedere ai cinesi, il negozio è restato in vendita più di due anni ma nessuno aveva neanche mai chiesto informazioni. Poi si è fatto avanti un imprenditore cinese – senza valigetta piena di contanti, quello forse accadeva anni fa – e il mio negozio che nel frattempo si era svalutato l’ho praticamente regalato. Purtroppo è così: la città sta diventando un bazar, un souk”.

L’analisi dei dati sfata invece un luogo comune molto diffuso negli ultimi tempi: quello secondo il quale gli imprenditori cinesi avrebbero approfittato del Covid per fare affari a prezzi stracciati. I dati del 2020 e il loro raffronto con quelli dell’anno precedente mostrano che non solo non c’è stata crescita dell’imprenditoria ma anzi che l’imprenditoria cinese ha registrato una flessione dell’1%, esattamente come quella italiana. Tutto sommato un segnale, anche se negativo, di integrazione. 

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Redazione Venezia

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