Così Zein al-Assad.
Il suo intervento sui social parla da sé. La seconda figlia di Assad ha sempre vissuto a Londra con mamma Asma, costose scuole e una passione per il cachemire, e in un post trova il modo di mettere sul chi va là i suoi follower, citando un link di raccolta fondi per i terremotati d’Idlib, una delle città più colpite e controllata dai ribelli al regime.
Le scosse, i morti, il buio, il gelo, la fame, la paura. E Assad. Delle sette piaghe di Siria, l’ultima è la peggiore. Due minuti di terremoto son riusciti a finire il lavoro di dodici anni di guerra, seppellendo i più sfortunati che già vivevano sigillati nei campi profughi e nelle città di cartone, ma il regime di Bashar al-Assad sa bene come peggiorare il peggio.
Raid e cannonate su Marea, 25 km a nord di Aleppo.
“Un attacco davvero insensibile e atroce – denuncia il governo inglese – Bombardamenti del tutto inaccettabili, il metodo di comportamento d’un regime che ben conosciamo”.
Nessuna pietà. Né per i morti, né per i vivi. La distruzione siriana resta nel cono d’ombra. D’un regime che rifiuta gli aiuti, perché diretti in regioni dell’opposizione. D’una Turchia nel caos che ha chiuso le frontiere e, in questo momento, non può pensare a far passare i soccorsi diretti nel paese vicino. D’una comunità internazionale paralizzata dalle sanzioni imposte ad Assad, incapace d’entrare in un’emergenza catastrofica.
Ci sono almeno 250 villaggi rasi al suolo, decine di campi profughi devastati, 400 località colpite, in ginocchio Aleppo, Hama, Latakia, Idlib. C’è una cittadina, Harem, che conta un morto ogni venti abitanti. E Jeindreis, 25 mila persone e più di mille vittime. Nessuno ci va, a parte il nunzio apostolico Mario Zenari, Sant’Egidio e qualche missionario, o i volontari della Mezzaluna rossa, tutti concordi nel chiedere una sola cosa: sospendere le sanzioni, consentire i soccorsi a chiunque, lealisti e oppositori, arabi e curdi, musulmani e cristiani, ricostruisce il Corriere.
Le zone ribelli, le più colpite: 5 milioni di persone, metà delle quali già sfollate durante la guerra, soffocano in un puzzle di microaree controllate ora dalle milizie filoturche, ora dai soldati di Assad, ora da gruppi jihadisti o che rispondono agl’iraniani.
Non arriva nulla: l’unico valico aperto al mondo era quello di Bab al-Hana, al confine turco, ma è pieno di macerie e da due giorni chiuso anche quello, causa neve.
Per di più, la Turchia non consente che passino aiuti non catalogati, non etichettati, non registrati.
Ha gioco facile il dittatore, così, quando maramaldeggia facendo dire dal suo ambasciatore all’Onu, Bassam Sabbagh, che “tutti gli aiuti verranno distribuiti, ma dovranno prima passare per Damasco”.
O propone per bocca del ministro degli Esteri, Faisal Mekdad, di togliere le sanzioni. Americani e inglesi, francesi e tedeschi non vogliono che Assad tocchi un solo camion d’aiuti. Non c’è un’ambasciata occidentale, in Siria, e anche il governo italiano sta cercando di bypassare i divieti d’aiuto ricorrendo a gruppi privati. La diaspora spedisce dollari da Usa, Europa, Australia. “Ma usare questi soldi è impossibile”, dice l’ong Molham, che ha pure raccolto su Instagram un milione e mezzo di euro: “Se non si sta con Assad, non si fa nulla”.
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