A settant’anni dalla tragica morte il mondo della cultura ricorda il grande scrittore
Disteso sul letto, sembra dormire. Ma Cesare Pavese, 42 anni, celebre autore di poesie, romanzi, racconti e saggi, in realtà è morto dopo aver assunto dei sonniferi. Albergo Roma camera 346 Torino, piazza Carlo Felice, a due passi da Porta Nuova. Un uomo lascia la vita. Il poeta e lo scrittore rimanevano immortali. La tragedia che scuote il mondo della letteratura segna la data del 27 agosto 1950 e si svolge in un albergo di Torino. Dopo mesi di sofferenze per la depressione.
Per Pavese i due luoghi fondamentali sono Santo Stefano Belbo e Torino, dai quali si emancipa presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Dalla “Luna e il Falò”, al “Mestiere di Vivere”, la Resistenza e il rimpianto, Nuto amico inseparabile. I classici della letteratura americana, Pavese aveva anticipato tanto.
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi” le sue ultime parole scritte. Tra le tante sentenze epigrafiche lasciate a imperitura memoria, oggi conservate in archivi tra i quali la Fondazione che porta il suo nome, dai più grandi scrittori di sempre, certamente quella impressa da Cesare Pavese sul suo libro “meglio riuscito”, com’ebbe a definirlo, prima di morire, resta, settant’anni dopo, affascinante e misterioso.
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