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Salvatore Novembre, il luglio ’60 e le lotte per il lavoro di ieri e di oggi. Una chiacchierata con Giovanni Pistorio

Pubblicato il 8 Luglio, 2022

Disclaimer: Giovanni Pistorio lo conosco da tantissimi anni. Sindacalista culturalmente “inquieto”, sensibile e appassionato, cresce e si forma nella grande “palestra” della Fillea, il sindacato degli edili, di cui oggi è segretario regionale. Con un chiodo fisso: la legalità. Intesa non solo come valore in sé ma come strumento di crescita, di riscatto, di promozione collettiva. A partire dal mondo del lavoro, in particolare dell’edilizia, dove sovente ti trovi a muoverti nella giungla degli appalti e dei subappalti, forse il terreno più fertile degli interessi opachi e criminali. E questi interessi, queste trame, Pistorio, li combatte da sempre. E non solo nelle sedi preposte, ma anche attraverso gli strumenti della comunicazione. Ultimamente, giusto per citare le iniziative più recenti, assieme al regista Alberto Castiglione ha realizzato una serie di video di denuncia sulle condizioni dell’edilizia in Sicilia, che stanno riscuotendo un discreto interesse. L’ho intercettato telefonicamente mentre partecipa alla celebrazione del 136 anni della Fillea a Roma, che vede tra i relatori, tra gli altri, esponenti sindacali del calibro di Maurizio Landini e Alessandro Genovesi.

Giovanni, hai dieci minuti?

Certo.

Sai già perché ti chiamo?

Immagino di sì. Oggi è l’8 luglio.

Una data che richiede un approfondimento, non pensi?

Già. Sono passati 62 anni dai drammatici fatti del luglio ’60.

Giorni di rivolta e di repressione poliziesca, in tutta Italia e in Sicilia, da parte dell’allora governo Tambroni.

Il contesto storico era quello dei grossi latifondisti che lasciavano le campagne per investire o speculare nei centri urbani, nel pieno del boom economico e del cosiddetto “miracolo italiano” che attirava tanti lavoratori che dalle campagne si trasferivano alle città in cerca di un lavoro, soprattutto in edilizia e nelle fabbriche, e di una vita dignitosa, anche per sfuggire alla “morsa” dei campieri che la facevano da padrone, sottoponendoli a disumane condizioni di sfruttamento.

Tra questi disoccupati, c’era anche il giovane Salvatore Novembre, ucciso dalla polizia durante una manifestazione sindacale.

Salvatore Novembre, che arrivò a Catania da Agira in cerca di un lavoro, così come Francesco Vella e Andrea Gancitano a Palermo, furono vittime di quella feroce repressione che voleva, innanzitutto, cancellare quel grande movimento popolare, di portata rivoluzionaria, che emergeva come un fiume carsico e si riversava sulle strade e sulle piazze di tutta Italia, in nome della dignità del lavoro e del riscatto dei lavoratori. Si pensi solo che tra le rivendicazioni di questo movimento popolare c’era anche il reddito minimo per i disoccupati oltre che la lotta contro il carovita. Rivendicazione di grande attualità visto che ne parliamo ancora oggi, dopo decenni. Insomma, chiedevano pane e libertà, per usare il titolo della recente serie tv dedicata a Giuseppe Di Vittorio.

Si può dire che quel movimento fu sconfitto?

Assolutamente no. Perché nelle lotte di quei giorni e di quelle degli anni a venire si è innervata la trama delle grandi conquiste sindacali successive, in edilizia e non solo, proprio quello di cui stiamo discutendo anche oggi nel celebrare i 136 della Fillea Cgil.

136 anni, un bel traguardo. In che stato di salute è il sindacato tra gli edili?

In ottima salute. Continua ad essere un punto di riferimento imprescindibile per i lavoratori edili, soprattutto per i giovani.

A proposito di giovani, cosa ne pensi di questa narrazione secondo cui preferiscono stare sul divano che lavorare?

Che è totalmente errata e offensiva. Il punto è che i giovani, oggi come negli ‘anni 60, chiedono e si battono per salari dignitosi, contratti regolari, chiedono di non lavorare 14 ore al giorno e la certezza di poter tornare a casa vivi dal lavoro. Cosa che purtroppo non è avvenuta per Roberto Savasta, morto qualche giorno fa mentre lavorava alla manutenzione di un tetto a Valguarnera. Di lavoro si deve vivere, non morire. Altro che divano.

E allora, che dire, auguri, e altri 136 di questi anni…

Grazie, speriamo anche di più…

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